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Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

La Resistenza delle donne di Carrara: residui di vanità e tanto di coraggio

DiVinicia Tesconi

Mar 8, 2022

I soldati del regio esercito sfasciato dall’armistizio erano tornati a casa, ma solo per raggiungere i partigiani sulle montagne o per restare nascosti ed evitare la legge marziale o i tedeschi. Le donne di Carrara erano andate alla stazione di San Martino, ad accogliere figli, mariti, fidanzati, fratelli, in fuga dalla caserma di La Spezia, dove i tedeschi stavano rastrellando i militari italiani per mandarli nei campi di lavoro in Germania. Un saluto di un attimo, spesso dopo anni di assenza: il tempo di consegnare qualcosa da mangiare, un capo di vestiario, anche rammendato, da indossare e poi vederli sparire verso le colline o verso i più disparati nascondigli. Carrara, alla fine del ’43 era una città di sole donne e bambini. Se c’erano uomini, erano troppo anziani per fare qualunque cosa. Quelle donne che per l’Italia di allora, non avevano abbastanza cervello, né umana dignità per poter votare. Quelle donne che a Carrara, in particolar modo, venivano picchiate per un nonnulla dai mariti cavatori, rudi e forti bevitori. Quelle donne che, praticamente, non contavano nulla e che, improvvisamente divennero l’unica risorsa possibile per non bloccare il paese. Gli uffici comunali, ma anche le poche aziende private ancora esistenti, in cui, fino ad allora, avevano lavorato praticamente solo uomini, cominciarono ad assumere le donne in possesso del diploma di terza media: per molte fu la scoperta della possibilità di una propria dimensione lavorativa e di un’indipendenza mai presa in considerazione prima. Quelle, molte di più, che quel diploma non l’avevano si ingegnavano come potevano, per racimolare qualcosa da mangiare per i loro figli. Andavano sulla spiaggia a raccogliere l’acqua per farla bollire e ricavarne sale da usare come moneta di scambio per un po’ di farina, un po’ di zucchero, un pacco di biscotti. Vendevano le lenzuola, le coperte e le federe ricamate a mano dei loro corredi o le scambiavano con qualunque genere alimentare, camminando per giorni per raggiungere le località in cui, si sentiva dire, che era possibile comprare qualcosa da mangiare: Lunigiana, Parma. Con gli zoccoli ai piedi, e a volte anche senza quelli, coi piedi fasciati alla bell’e meglio, spesso in mezza alla neve. Si alzavano alle tre di notte, sfidando il coprifuoco, per fare la coda per ricevere due chili di carbone, sapendo che non sarebbe bastato e chissà quando ne avrebbero potuto comprare ancora. Facevano altre lunghe ore di coda, con la tessera annonaria in mano, per ricevere la dose razionata di generi di sopravvivenza che garantiva lo stato. E in mezzo alla paura, alla fame e alla sconfortante incertezza verso il futuro, quelle donne, tutte quante, andavano avanti inconsapevoli di rappresentare l’estremo, unico aggancio con la forza vitale della quotidianità ormai pesantemente devastata. Ancorate alla realtà di ciò che era e di quel che, sicuramente sarebbe tornato, la pace, una vita fatta di piccole gioie, il tempo di qualche frivolezza, trovavano la forza, a volte, di concedersi minime vanità, inutili, ma necessarie a ricordare a loro e a tutti, che la vita non era solo quella devastazione che stavano vivendo. E allora, c’era chi riusciva a ricavare tessuti decenti per fare un vestito nuovo dai sacchi di iuta della farina, lavandoli e sbattendoli per ore con i sassi al lavatoio. O chi usava l’acqua in cui si lavavano i panni con la cenere, perché il sapone era davvero un lusso per pochissimi, dopo averla filtrata, per lavare i capelli, risciacquandoli, poi, con la camomilla per ridar loro lucentezza. E ancora chi usava piccole strisce di vecchia stoffa, gli straccetti, come perfetti sostituti dei bigodini per la messa in piega. E poi c’erano quelle che sceglievano di combattere contro i tedeschi, accanto agli uomini, come gli uomini. A Carrara nacquero i gruppi di Difesa della donna nei quali confluirono figure di incredibile coraggio e determinazione: erano le staffette partigiane, le donne che salivano sui monti a portare cibo, armi, informazioni agli uomini che stavano organizzando la Resistenza. Usavano le proprie armi, le donne, per ingannare i posti di blocco dei tedeschi: i loro bei visi e il loro sorriso come garanzia di innocuità mentre portavano ceste di fiori per il cimitero nelle quali, invece erano nascoste le bombe. Sfidavano un nemico feroce e spietato, a volte senza neppure sapere la natura di ciò che stavano trasportando, ma consapevoli che il venire scoperte sarebbe stata una condanna a morte immediata. Laudonia Ori, avenzina, era una delle fautrici e direttrici dei gruppi di difesa, con lei Bruna Conti, Renata e Dina Bacciola, Bruna e Doria Tavarelli e Cesarina Tosi: solo alcuni dei nomi di quelle donne di Carrara che lottarono per la libertà, e insieme a tutte le carraresi del periodo della guerra, furono l’anima viva e resistente che tenne in vita la città.

© Foto Archivio Michelino