Lazzaro Arturo Stagnari era nato a Massa nel 1903. A raccontare la sua storia è suo figlio, Luciano, che non può dimenticare il vuoto negli occhi del padre, le urla che riecheggiavano nel silenzio della notte, la paura che scorreva dentro le sue vene, senza alcuna tregua. Lazzaro Arturo Stagnari era un sopravvissuto dell’Olocausto: era tornato dai campi di sterminio nazisti. Era tornato, per fortuna, ma non era più lo stesso uomo. Il figlio non è mai riuscito a darsi pace nel vedere il padre distrutto, né ha mai saputo spiegarsi tanta malvagità umana. Ha voluto vedere con i propri occhi il campo di concentramento di Auschwitz, lo ha percorso, cercando di immaginare le atrocità che lui gli aveva raccontato. Solo immaginare, perché certe cose la mente non le accetta.
Era febbraio quando Luciano Stagnari decise di fare il viaggio che aveva in mente da anni: vedere quel campo di concentramento, sfiorare il filo spinato, respirare il vuoto di quegli spazi dannati, immaginare il fumo che si leva dal camino e piangere. Piangere su quella terra che ha visto atrocità inenarrabili, piangere sulle ossa di milioni di corpi polverizzati nel nulla. La neve imbiancava il campo, il freddo era pungente e una leggera nebbia offuscava i confini. Luciano Stagnari ha provato a immaginare suo padre, seminudo, marciare sulla neve, con le mani e le labbra violacee, ma non c’è riuscito. Pur soffrendo, non sente sulla sua pelle quello che soffrì suo padre, in quell’inferno di follia.
“Mio padre aveva compiuto 41 anni da quattro mesi, quando venne rastrellato dai tedeschi, strappato alla sua famiglia – racconta Luciano Stagnari –. Da quel momento, in lui era morta qualsiasi idea di speranza perché il suo pensiero non andava mai oltre il giorno, l’ora e il minuto. La morte era sempre in agguato. Mi raccontava che nel lager, fra i deportati, si era creato un legame profondo, una complicità tesa a creare un’opposizione agli assassini, senza mai riuscirci. Credo che mio padre abbia trovato la forza di resistere e di non lasciarsi andare nel pensiero che aveva verso la sua famiglia e nel desiderio di rivederla unita. Tornò, ma non ci fu un ritorno alla normalità. Durante i giorni di festa, alla fine del pranzo, si ripeteva una sorta di rito che non poteva mancare: restavamo seduti al tavolo e lui cominciava a raccontarmi la sua tragedia, cominciata un brutto giorno d’autunno, quando nelle campagne si cominciavano a preparare le botti per l’uva e il granoturco era al sicuro nei granai. Mio padre era un contadino ed amava molto la compagnia, aveva stima per l’essere umano. Molte persone, quel dannato mattino, furono arrestate e trasportate in un centro di raccolta a Carrara, in attesa di essere trasferite in Germania. Prima della deportazione, amava il proprio simile, ma dopo il suo ritorno la presenza di persone sconosciute lo spaventava, diventava diffidente. Cercava di mettersi sulla difensiva e diventava nervoso, aggressivo. Dunque, i nostri incontri avvenivano dopo i pranzi festivi. L’atmosfera sicura della famiglia, il calore della casa, di una tavola imbandita, gli davano il coraggio di parlare, confidarsi, cercando di alleggerire quel dramma che gli pesava sul cuore. I ricordi lo commuovevano e si liberava dall’angoscia con il pianto. Mi raccontava che non avrebbe più voluto soffrire la fame. La fame, atroce, che divora le viscere nei crampi dolorosi dello stomaco. Gustava il cibo che adesso entrava nella sua bocca, quel sapore di pane buono, da masticare lentamente, assaporarne il profumo, la fragranza, la morbidezza. Lo tratteneva in bocca, perché una volta ingoiato, diceva, quel boccone, non ci sarebbe stato più. E sarebbe rimasto il vuoto, il dolore, il nulla. La fame provata aveva lasciato tracce, aveva seminato l’atrocità del corpo scheletrito e il ricordo, faceva male. Mai più la fame, mai più, ripeteva e il pianto accompagnava le sue parole.
Ritornava con la mente a quel triste mattino di fine settembre, a Carrara, in attesa di non sapeva cosa. Passarono alcuni giorni prima dello schieramento in cortile. Un ufficiale nazista aveva cominciato l’appello dei prigionieri, costretti, sotto le minacce, a ubbidire e a partire nel disegno della follia hitleriana. Nessuno di loro sapeva dove fosse diretto, e a fare cosa. Le SS naziste si dimostravano brutali e aggressive. In poco tempo i prigionieri si trovarono alla stazione, pronti per partire. Venivano stipati in vagoni adibiti al trasporto delle bestie. Colpiti dalle bastonate dei militari, furono obbligati ad occupare interamente lo spazio del vagone. Pressati l’uno contro l’altro. All’interno il buio era fitto, solo una misera luce entrava da un finestrino di pochi centimetri, posto all’estremità della parete vicino al tetto, sbarrato dal filo spinato. Sdraiarsi in terra era impossibile. Non c’era spazio per tutti. Erano l’uno contro l’altro e cercavano di dormire, in piedi. La lotta contro la fame e la sete si faceva sempre più drammatica e le condizioni del viaggio sempre più dolorose. Le persone più gracili e anziane si ammalavano. Il viaggio continuava, continuava, inesorabilmente, giorno dopo giorno. Erano distrutti, sfiniti nel corpo e nello spirito: era cominciato il processo di spersonalizzazione”.
Luciano Stagnari riferisce le parole di suo padre: “Dopo giorni e giorni, senza mangiare e senza bere, arrivammo in Germania. Alcuni del gruppo erano deceduti, in silenzio, non avevano retto e noi, ancora vivi, avevamo proseguito il viaggio insieme a loro, senza nemmeno rendercene conto. Scesi dal treno, fummo introdotti in un campo che portava all’ingresso la scritta ‘Il lavoro rende l’uomo libero’. Fummo inquadrati, tre per volta, davanti all’ufficio del comandante. Prima di uscire ci consegnarono un pezzo di stoffa bianca con un numero stampato in nero e un triangolo, sempre di stoffa. Il triangolo era di colore bianco, verde, rosso, giallo e rosa. Con il colore veniva indicata la causa dell’internamento. Il giallo era destinato agli ebrei, rappresentava il marchio dell’infamia e della morte. Mi fecero un libretto e da quel momento il mio nome divenne un numero: 1798. Mi diedero un triangolo di colore bianco, destinato al lavoro. Mi raccontarono che avevano bisogno di braccia per lavorare e per quel motivo dovevo avere un documento. In quella circostanza compilarono il fremdenpass e poi fui trasferito in Polonia.
Giunti nel campo di sterminio, donne e uomini vennero inquadrati e spogliati, completamente nudi. Gli aguzzini rubarono tutto quello che avevamo, anche i denti d’oro. Spogliati di tutto, fummo depilati e ridotti come quando madre natura ci aveva generati. Tutto questo avveniva durante i primi giorni di ottobre 1944. Dopo la depilazione, ci fecero fare la doccia con acqua gelida e poi acqua bollente. Ancora bagnati, ci vestirono con una camicia e un pantalone a strisce. In piedi, un paio di zoccoli. Seguì il periodo di quarantena, assegnando a ciascuno di noi un posto in una baracca. Dormivamo su tavolacci senza uno straccio di coperta ed eravamo ammassati come sardine in scatola. Per sentire un po’ di calore, per non morire di freddo, tenevo il corpo a contatto con quello di un altro deportato polacco.
Mentre camminavamo, sotto il peso di un’infinita stanchezza, guardavamo sempre a terra con la speranza di trovare qualche buccia di patata, anche congelata, per cercare di calmare i crampi della fame. Sapevamo che se venivamo scoperti a mangiare qualsiasi cosa non distribuita dalla cucina del campo, ci sarebbe stata, immediatamente la fucilazione. E come se il freddo, la fame e il lavoro sfibrante non bastassero a completare lo sfinimento, venivamo costantemente tormentati dai kapò e dalla SS, che sfogavano i loro violenti istinti con pugni, pedate, vergate, bastonate e colpi con il calcio del fucile. Un mese così, d’inferno, e le temperature erano scese ancora. Un giorno, mentre eravamo sotto una tempesta di neve e vento, un ufficiale delle SS si rivolse a me, ma io non comprendevo. Fu il mio amico polacco, che comprendeva la lingua tedesca, a farmi cenno di dire sì. Ero stato chiamato per fare il muratore, una condizione da privilegiato. Purtroppo non ero in grado di svolgere quel lavoro, nonostante lavorassi la calce con le mani nude. Cercavo di farcela, ma per gli aguzzini non c’era comprensione e per la mancanza di capacità lavorativa fui considerato un sabotatore: dovevo morire. Fui portato al centro del piazzale per essere fucilato. Non ricordo i miei pensieri in quel momento. Le atrocità ci avevano rubato anche i pensieri. Un soldato delle SS stava caricando l’arma per uccidermi. Dovevo contare i minuti, i secondi. A un tratto il comandante del campo intervenne sospendendo l’esecuzione: ‘Quel fisico è ancora utile per il lavoro!’. L’amico polacco non riusciva a capacitarsi per aver procurato, involontariamente, tanto rischio e tanta paura. La sera, sdraiati su quelle nude tavole, insieme, piangevamo a lungo per dare sfogo alla tensione accumulata. L’amico polacco, una mattina, mentre tutti incolonnati stavamo andando al campo di lavoro, riuscì strappare una manciata d’erba congelata per calmare i morsi della fame. Un kapò notò il gesto e con un badile, si scagliò su di lui spaccandogli la testa, senza alcuna pietà, e lo abbandonò come un vecchio straccio da buttare. Ciao, amico, ripetevo dentro me. Ciao amico mio”.
Luciano Stagnari è stato ospite giovedì 3 febbraio all’istituto Salvetti di Massa per essere ascoltato e intervistato dagli studenti. Un momento di grande commozione per tutti. L’iniziativa rientrava nel progetto più ampio “Il Salvetti ricorda…”, avviato il 27 gennaio per la Giornata della Memoria al centro commerciale Carrefour.