Impronte sulla neve
Dorme la Tambura
tra orme mute,
sparse sulla neve.
Era di neve la
processione delle donne
lungo i sentieri
della fame.
Tra macchie rosse
la neve attutiva
il fuoco delle mitraglie
e il tonfo dei compagni uccisi.
Di neve era l’impronta
lasciata dietro
per milioni di impronte
di stracci e piedi nudi.
Ad ogni passo
una piccola orma
grida un nome,
milioni di nomi
scritti per una stagione
mai compiuta.
Muta, la Tambura riposa
nell’eco di passi
stanchi,
tra orme e tracce
solchi e stampi…
Esplode il sepolcro
della memoria
e là, in quella neve
urla e risorge la nostra storia.
Dal libro Impronte sulla neve – Via del sale – Inverno 1944-45 di Angela Maria Fruzzetti
Faceva molto freddo nell’inverno tra il 1944 e il 1945 sul territorio apuano. Sembrava che il tempo si stesse accordando al gelo del più terribile anno della seconda guerra mondiale e che quel mare, che dista solo otto chilometri in linea d’aria dalle vette delle montagne, non fosse più capace di rilasciare il suo calore a mitigare la temperatura, a dare tregua allo sfinimento di un anno vissuto sulla linea dei combattimenti più feroci. C’era molta disperazione e non c’era cibo. Nelle città e nei paesi ai piedi delle Apuane erano rimaste solo le donne, i bambini e i vecchi e si doveva vivere, si doveva andare avanti, si doveva tentare di credere che ci sarebbe stato un futuro. Poche le risorse rimaste, la più grande: il coraggio delle donne. Sole, sfinite, mal attrezzate, le donne apuane sfidarono la neve, le montagne e le raffiche dei tedeschi per raggiungere la Garfagnana o la pianura padana dove sapevano di poter trovare qualcosa da mangiare da barattare con quel poco che avevano: i loro corredi nuziali e, soprattutto, il sale. Il mare vicino al quale vivevano diede loro l’ultima, insperata ricchezza che pure si doveva guadagnare con rischi e fatica. Il sale, merce preziosa nell’insipida aridità della guerra, divenne la moneta di scambio principale che spinse moltissime donne ad avventurarsi in viaggi pericolosi e estenuanti in quelle che presero, appunto, il nome di “vie del sale”. Le loro voci, le loro testimonianze dirette sono state raccolte dalla scrittrice e giornalista Angela Maria Fruzzetti e trasformate in saggi e in poesie perché le impronte lasciate da quelle donne nella neve non svaniscano mai nella memoria.
Drammatica fu quella stagione che vide le donne armarsi di tanto coraggio e affrontare in modo pacifico una resistenza etica e civile, senza distinzione politica. Una lotta per la sopravvivenza che portò le donne e i ragazzi “sugli impervi sentieri”, come recita la motivazione della medaglia d’oro al Valor militare concessa alla provincia di Massa Carrara, prima in Italia ad aver ottenuto questo riconoscimento. File di donne vestite di stracci e a piedi nudi si avventurarono sulle Apuane bianche di neve in cerca di cibo. Oltre le montagne portarono di tutto: biancheria del loro corredo matrimoniale, oro e denaro, chi l’aveva, e sale della marina. Per procurarsi un sacco di farina, le donne svuotarono i loro armadi di biancheria, particolarmente apprezzata in Garfagnana dove le famiglie non possedevano nulla: “Non sapevano nemmeno cosa fossero le federe e le tovaglie – ricordano alcune donne. E le “garfagnine” ci aspettavano volentieri per ottenere lenzuola, asciugamani, coperte in cambio della farina. E ci trattavano bene. Eravamo accolte nel migliore dei modi. Miseria sì, ma anche accoglienza e umanità”.
Il sale si otteneva con un lungo e faticoso lavoro che testimonia l’ostinata volontà della popolazione nella lotta per la sopravvivenza. A gruppi, soprattutto donne e ragazzi, si recavano sulla spiaggia e riempivano di acqua marina grosse damigiane. Quindi, in luoghi appartati, non visibili dai tedeschi e dai fascisti, accendevano dei fuochi con legna tagliata nelle pinete; bollivano l’acqua in marmitte, paioli, pentole di fortuna finché non ottenevano un po’ di sale. Nacquero vere e proprie fabbrichette del sale, “ma per averlo, ci volevano i soldi”, rammentano alcune testimoni. Il sale veniva poi portato in Garfagnana o nella pianura Padana passando da vecchi sentieri tra cui la via Vandelli, costruita a metà del ‘700 per volontà del duca di Modena per creare un collegamento con il mare, ma dismessa da decenni per la sua eccessiva pendenza e scarsa praticabilità, oppure trainando carretti lungo le strade della Cisa o del Cerreto, con tutti i rischi incombenti. “Ci si sdraiava quando passavano gli aerei”, raccontano. “Ci mettevamo tutte a terra e si aspettava che si allontanassero”. E c’era anche chi partiva con uno o due etti di sale per ricevere in cambio qualche pugno di farina, camminando per giorni e giorni. Queste erano le “vie del sale”. La via Vandelli era piena di pericoli e di difficoltà ma tornò ad essere percorsa dalle donne massesi dopo che la città soggetta agli ordini di sfollamento dei tedeschi, era ridotta alla fame. Su quelle strade coperte di neve le donne si incamminavano con gli zoccoli ai piedi o, spesso, con i piedi fasciati di sole pezze. Alcune si fermavano in Garfagnana, altre proseguivano fino alla pianura padana, e raggiungevano il territorio modenese. Tornavano, dopo giorni di fatica, con sacchi di farina, di castagne o di grano, a volte anche olio, ottenuti in cambio del sale o dei loro corredi. Alcune morirono di freddo o sfinimento, durante tormente di neve, altre scivolarono nei burroni, o furono mitragliate dai tedeschi. Altre, ancora, furono derubate del prezioso carico. Ma partivano lo stesso. Prima si concludeva la trattativa di scambio e prima si tornava a casa, stremate e trasfigurate, ma pronte per un nuovo viaggio. Forse per la giovane età, forse perchè era comunque l’unica via di salvezza, queste donne e questi ragazzi affrontarono i viaggi estenuanti oltre le Apuane sostenuti da una incredibile volontà di superare le avversità quotidiane, da un grande coraggio che non ha mai permesso loro di arrendersi, nemmeno di fronte alle atrocità della guerra. E commuove pensare a quelle ragazze, quando, percorrendo i sentieri della fame, scoprivano nella neve la voglia di giocare, ridere e cantare.
Ho ascoltato molte di queste storie, testimonianze di donne “resistenti” sulla via del sale. Ho ascoltato le gesta eroiche di quelle donne sopravvissute al gelo delle montagne, al pericolo dei sentieri impervi, a mitragliamenti e bombardamenti, allo spavento della fame, allo sfinimento di giorni di cammino, scalze, nella neve. Ogni donna ha una memoria da raccontare, un’esperienza da riportare per meglio comprendere la drammatica epopea di quella tragica stagione. Ho voluto raccontare queste storie in canti, versi poetici che sono nati nel mio cuore ascoltando parole pronunciate con orgoglio e grande dignità.
Un’ode a queste protagoniste della resistenza femminile unite nella lotta quotidiana, indispensabile per la sopravvivenza della popolazione civile. Non ho sentito disperazione nei loro racconti, ma la consapevolezza che bisognava andare, forti di un protagonismo personale, senso di cittadinanza e responsabilità civile. Spero, col mio lavoro di ricerca, di trasmettere ai più giovani la forza, l’umiltà, il senso di giustizia e di libertà, l’autodeterminazione che contraddistinsero quelle donne e quei ragazzi persi sugli impervi sentieri. Spero di trasmettere loro la forza della montagna, quella che le giovani donne riuscirono a graffiare e imprimere in quel volto che, come per miracolo, appare in certe ore del giorno sul versante marittimo della Tambura. Un volto scarnificato, sfinito, che guarda l’orizzonte e grida “libertà”.