Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda il battaglion!
Il ritornello della canzoncina, cantata sulle note della fanfara dei bersaglieri, che già esisteva dalla prima metà dell’’800, è uno dei più longevi della storia italiana, pur essendo nato a metà tra la celebrazione e la presa in giro delle conseguenze della prima crisi diplomatica del neonato stato italiano. Il testo venne scritto, infatti, a seguito del ferimento di Giuseppe Garibaldi sull’Aspromonte, avvenuto il 29 agosto del 1862, per mano dei bersaglieri del Regio Esercito italiano, mentre l’Eroe dei due mondi tentava di risalire, di nuovo, la penisola, con un esercito di volontari per andare a conquistare Roma, ultimo baluardo dello Stato Pontificio che non voleva in alcun modo sottomettersi al regno d’Italia. Fuoco amico? Non proprio.
Garibaldi, forte di un consenso popolare smisurato, aveva colto l’occasione di un viaggio in Sicilia a due anni dell’impresa dei Mille, per completare l’opera che aveva iniziato e dare all’Italia la sua capitale naturale, già indicata da Cavour. I tempi politici scelti da Garibaldi, tuttavia, non erano i più favorevoli: Papa Pio IX continuava a rifiutarsi di riconoscere lo stato italiano e si era rifugiato sotto la protezione storica dell’esercito francese di Napoleone III, che era, però, fresco alleato dei Savoia nella guerra che aveva portato all’indipendenza e all’Unità d’Italia. Attaccare il papa avrebbe voluto dire andare contro ai francesi e quella giovanissima Italia, che aveva appena cominciato il suo cammino cercando di risolvere il gravoso problema del brigantaggio nel meridione, non poteva, assolutamente, permettersi una guerra contro i francesi. Per questo Garibaldi andava fermato e il re Vittorio Emanuele II e il primo ministro Urbano Rattazzi mandarono all’esercito il telegramma con “l’amaro” ordine di fermarlo. Fu il colonnello dei bersaglieri Emilio Pallavicini, che guidava l’esercito sull’Aspromonte, a dare l’ordine di sparare al grande generale: sparare per uccidere, quindi ad altezza d’uomo. La crisi innescata dall’iniziativa presa da Garibaldi, per i vertici dello stato italiano, valeva anche la vita della figura simbolo di quella agognata unità del paese, già idolatrata e celebrata non solo in Italia, ma anche all’estero. Ma quando Pallavicini ordinò di aprire il fuoco su Garibaldi, il soldato che ricevette l’ordine ebbe un impeto di dolore e di ribellione e decise di non mirare al petto, ma di puntare ai piedi e lo ferì al malleolo. Pochi secondi prima di essere a sua volta ferito nello stesso punto, dai garibaldini. Non fuoco amico, ma, sicuramente cuore amico, quello del luogotenente dei bersaglieri, Luigi Candido Grazioso Ferrari, che con quella pallottola non uccise Garibaldi, ma si condannò al tormento e all’ostracismo per il resto della sua vita.
Aveva una mira eccezionale Luigi Ferrari, affinata sin da bambino, quando andava a caccia nei boschi intorno a Castelnuovo Magra, il paese in cui era nato. Una volta aveva centrato un merlo a trenta metri di distanza: lo raccontò a Garibaldi che gli chiese se la scelta di colpirlo alle gambe fosse stata intenzionale. Si incontrarono quando il generale era ancora convalescente dopo che, finalmente, a tre mesi di distanza dal ferimento, i medici erano riusciti ad estrarre la pallottola dalla sua caviglia. Luigi Ferrari, invece, aveva già una protesi di legno al posto del piede, per la ferita ricevuta sull’Aspromonte. Per la sua impresa, Luigi, aveva ricevuto una medaglia d’oro dal governo italiano, ennesimo riconoscimento di uno stato militare pieno di onorificenze, ma il solo per cui, però, provava vergogna. Ferrari era già stato decorato con due medaglie d’argento e una di bronzo al valore militare. Nato nel 1826 si era arruolato volontario nei bersaglieri nel 1854 partecipando alla prima guerra di indipendenza col grado di caporale e ottenendo, alla fine, la promozione a sergente. Si era distinto nella battaglia di Goito e in quella di Novara e poi, di nuovo, nella battaglia di San Martino, nel corso della seconda guerra di indipendenza. Dopo l’Aspromonte arrivò il congedo e Ferrari fece ritorno a Castelnuovo Magra, dove venne osannato per le decorazioni che aveva riportato, tanto da essere eletto sindaco. Il consenso popolare, tuttavia, durò fino a quando venne svelata la motivazione della medaglia d’oro ricevuta per aver sparato a Garibaldi, cosa che Ferrari aveva fatto di tutto per tenere segreta. Garibaldi era veramente l’unico filo che univa tutti gli italiani ancora “da fare” e l’incolpevole impresa di Ferrari venne considerata da tutti come un’onta imperdonabile: l’ex bersagliere divenne oggetto di offese e improperi continui e fu costretto a vivere nell’amarezza e nella solitudine fino alla fine dei suoi giorni. Le sue ultime parole furono per l’eroe dei due mondi: “Voglio raggiungere Garibaldi così come lo ho lasciato a Scilla”.
Fonti:
“Ho sparato a Garibaldi: la storia inedita di Luigi Ferrari, il feritore dell’Eroe dei due mondi” di Arrigo Petacco e Marco Ferrari – Mondadori Editore