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Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

Per non dimenticare: la nuova rubrica di Diari Toscani

DiDiari Toscani

Set 28, 2021

Le donne hanno quasi sempre avuto ruoli, apparentemente, secondari nelle grandi vicende della storia. Raramente erano ai tavoli in cui facevano accordi o si dichiaravano guerre. Quasi mai erano a capo di eserciti o alla guida di navi e aerei da guerra. Non caricavano cannoni, non sganciavano bombe. Mai imbracciavano i fucili nei plotoni d’esecuzione. Non sceglievano di lasciare figli e famigliari per dedicarsi alla lotta armata, anche quando il motivo era più che nobile e giusto. Non facevano attentati neanche quando il potere aveva attentato alla libertà, il bene più prezioso. Le donne restavano, semplicemente. Certe che la vita doveva andare avanti comunque, oltre ogni impresa eroica o infame, in genere fatta dagli uomini. I figli andavano nutriti, i vecchi andavano accuditi: in mezzo alle bombe, ai pazzi con le mitragliatrici o con le spade, in mezzo allo scempio che ogni guerra causava da sempre, silenziose ma indomite, capaci di piegarsi per sopportare ogni sofferenza per difendere quella vita e quegli affetti che le guerre, principalmente distruggono, le donne resistevano, sempre. Una resistenza che ha radici, forse, con la donna stessa e che è l’immensa cifra che la contraddistingue. Il coraggio è, anche, cercare un po’ di pane per sfamare i propri figli in un mondo distrutto e stravolto dalle guerre degli uomini. E se alla fine di ogni conflitto, in cui sempre si è sconfitto il senso di umanità, ci sono state case in cui i sopravvissuti hanno potuto tornare, se la vita non si è fermata mai, neppure quando a tutti pareva stesse per finire, è stato grazie alle donne che in silenzio e con una forza molto più devastante di ogni bomba, hanno lottato per ogni briciola di normale quotidianità e non si sono arrese mai. Le donne resistono, oggi, come in ogni epoca della storia. Sempre. E anche alle loro imprese che, non sempre finiscono sui libri di storia, si deve la memoria. Quella memoria che è un dovere di tutti, come ricorda Angela Maria Fruzzetti, scrittrice, giornalista, storica e, da oggi, curatrice della nuova rubrica di Diari Toscani, Per non dimenticare. (Vinicia Tesconi)

All’alba del 24 agosto 1944 oltre 50 camionette e autoblindo carichi di soldati tedeschi e militi fascisti salirono da Fosdinovo verso il paese di Vinca, toccando altri paesi della Lunigiana. Gli uomini del maggiore Walter Reder, comandante del 16° Battaglione SS, e la Brigata Nera “Mai Morti” arrivarono al paese di Vinca nella prima mattinata mentre altre colonne di nazisti e fascisti collaborazionisti accerchiarono la zona salendo dalle valli sul versante della Garfagnana e da quello di Carrara.
Iniziò la carneficina e la spietata caccia all’uomo, battendo palmo a palmo per tutta la giornata le abitazioni di quel paese di cavatori e di pastori. Dopo il massacro, Vinca diventò un rogo. La carneficina riprese nei giorni successivi con l’obiettivo strategico di falciare ogni vita: nessuno degli scampati che erano tornati a raccogliere i familiari uccisi e per salvare dalle fiamme quello che potevano sopravvisse. Solo il 28 agosto fu possibile raggiungere Vinca. I pochi superstiti, nascosti nei boschi di castagno e in qualche anfratto della montagna, vagavano come fantasmi, persi nell’orrore della loro terra. 174 furono le vittime, lungo la scia del terrore che già aveva seminato distruzione e morte nelle stragi di Forno (72 vittime), Sant’Anna di Stazzema (560 vittime), San Terenzo Bardine (53 vittime), Valla (115 vittime) ed altri morti ancora. Nudi, decapitati, impalati, impiccati, dilaniati, arsi con i lanciafiamme: il disumano accanimento dei nazifascisti contro la popolazione inerme, donne e bambini, è indescrivibile. I nazisti, affiancati dai “Mai Morti” delle Brigate Nere e dalla Decima Mas, seguirono alla lettera il comandamento di Hitler: “Dobbiamo essere crudeli, dobbiamo esserlo con tranquilla coscienza, dobbiamo distruggere tecnicamente, scientificamente, tutti i nostri nemici”.

Arrivai a Vinca che le teste delle mucche erano ancora calde“. Ha 88 anni (nel 2015, quando è stato pubblicato il libro, n.d.r.) Albertina, ma le immagini di quel drammatico periodo storico che ha segnato la vita di intere popolazioni sono ancora vive nella sua memoria, come fosse ieri. Cerco di entrare nei suoi ricordi per ricondurla a Vinca, quel giorno in cui lei, come dice, toccò la testa ancora calda delle mucche. Chiedo spiegazioni: “Le corna degli animali bruciavano ancora – spiega –. Il paese era un rogo. Fiamme, fumo, puzzo di carne bruciata. Tedeschi e fascisti erano passati da lì e avevano compiuto lo scempio. Tra il fumo e la cenere c’erano scarpe, frammenti di piedi, corpi dilaniati. Un massacro. Alcuni li avevano ricomposti, ma tanti corpi orribilmente mutilati, in stato di decomposizione, erano ancora lì, come legna da ardere tra le ceneri fumanti di quel paese in fiamme”.
Albertina era di passaggio. Era partita da Canevara, raggiunto il passo del Vergheto per scendere oltre la foce di Navola e i versanti delle Apuane interne. Prima di arrivare a Monzone, la prima tappa d’obbligo era Vinca. Lassù, in quel borgo di pietra immerso nella natura delle vallate Apuane, protetto dal Pizzo d’Uccello e dal Monte Sagro, Albertina aveva maturato rapporti di amicizia con alcuni paesani e nei suoi viaggi in cerca di cibo, era lì che si fermava per la prima sosta. “Mi prese il terrore – racconta –. Non sapevo più se proseguire o tornare indietro. Ero partita con del sale e una tovaglia da vendere per trovare un po’ di cibo da portare a casa. La mia famiglia aspettava. Davanti a quegli orrori restai come paralizzata. Ricordo che vidi alcuni superstiti girovagare come fantasmi, che cercavano di raccattare qua e là ciò che era rimasto. ‘Vieni con noi, Albertina‘. E mi ospitarono in un casolare rimasto in piedi, come fossi una di loro. Sentii raccontare dalle loro bocche cose orribili, atroci. Non mi allontanai da Vinca, quel giorno, non potevo farlo. Ero rimasta pietrificata. Decisi di restare in quell’inferno e mi fermai per pernottare insieme ad alcuni conoscenti scampati al massacro. Non potevo andare via di fronte alla disperazione dei pochi sopravvissuti. Fu una lunga notte quella trascorsa dentro una stalla, appena fuori dell’abitato in fiamme. Una notte di terrore e disperazione, passata a contare i morti, a nominare le famiglie sterminate. Le bocche appena dischiuse, con un filo di voce, riuscivano a pronunciare i nomi delle donne barbaramente violentate e poi trucidate. E chi aveva coraggio, accennava anche ai bambini, massacrati con una violenza spietata. Minuscole creature avvolte in fasce, che i nazisti per divertimento facevano volare in aria come oggetti pronti per essere centrati al bersaglio. Li prendevano così, così – Albertina fa il gesto posando la mano sull’addome –. Snodavano la fascia partendo dal lembo esterno, dai lacci legati sulla pancia del neonato e poi la srotolavano facendo girare il piccolo in aria fino a che la stoffa restava nella loro mano e la povera creatura si schiantava con forza contro una pianta di castagno o un sasso. Questo avevano fatto ai bambini in fasce, quei giorni. Si erano divertiti, così, quegli assassini. A lanciare i bambini in aria, come al gioco del tiro al bersaglio, infilzandoli o fracassandoli contro una pianta o un sasso. E le sevizie e le violenze fatte alle madri non si possono nemmeno raccontare. Nessuno aveva il coraggio di dire. Alcune le avevano impalate. Una ragazza, incinta, l’avevano sventrata e strappato via il feto. Non si possono dire queste cose, non si possono dire”. Non ha lacrime Albertina, tutto è congelato nel mare di cristallo dei suoi occhi.
È bastato affacciarsi sulla soglia di quel paese per respirare la tragedia nel fumo delle macerie, sentire il puzzo dei corpi bruciati, l’odore dolciastro del sangue rappreso, l’odore di morte, nell’afa. Era una calda sera d’ agosto, non ricordo nemmeno la data. Ricordo solo che le teste delle mucche erano ancora calde”.

Albertina fruga nei ricordi di quella dannata estate infuocata di follia e di orrori. “Sento ancora il respiro di quella notte a Vinca, trascorsa con alcuni sopravvissuti a quella dannata mattanza, chiusi dentro uno stanzone, terrorizzati e ammutoliti. Stavamo seduti, in attesa. Avrebbero potuto tornare le SS tedesche e finirci. Nessuno avrebbe opposto resistenza, nessuno sarebbe fuggito. Nessuno poteva sapere se la follia era finita, o se quegli assassini sarebbero tornati ancora per soffocare ogni respiro umano. Ogni rumore, era un sussulto. In ogni ombra si ravvisavano i tedeschi. Entrò invece una giovane donna, indossava un paio di pantaloni ampi, da uomo. A quei tempi nessuna donna portava i pantaloni e subito attirò l’attenzione dei presenti. Gli ampi pantaloni erano sorretti in vita da una cintura con 17 medagliette. Le contai tutte: erano 17. Si diceva che quella cintura fosse stata di proprietà di qualche prigioniero dei nazifascisti. La ragazza stringeva i grandi pantaloni con quella strana cintura. Si guardò attorno e si accovacciò in un angolo, pensierosa, muta, triste. Teneva la testa stretta tra le ginocchia, coprendosi con le braccia: una barriera con il resto del mondo. Non disse niente. Non parlò. Forse era una straniera, chissà. Per nulla si scompose, la ragazza era sprofondata in chissà quali tormenti.
Questo trovai a Vinca, quel giorno d’estate. Passavo da lì per poi raggiungere la Garfagnana. Non sapevo nulla, non sapevo di quell’orribile massacro. Qualcuno, dopo, raccontò che c’erano state delle spie fasciste. Le brigate nere erano salite da Carrara. Ci fu una sparatoria e le SS naziste furono spietate.
Non so quanti morti ci furono a Vinca. Sicuramente tanti. Alcuni vinchesi trovarono nascondigli dentro le grotte o dentro il tronco vuoto di castagni secolari, ma in pochi si salvarono, perché i nazisti rastrellarono anche le selve, guidati dalle formazioni nere che ben conoscevano quei luoghi. Uno dei sopravvissuti mi raccontò di aver assistito al massacro di sua moglie e di suo figlio. Era rannicchiato dentro un tronco di castagno, muto di terrore. Non era riuscito a fare nulla di fronte a quel massacro di vite e adesso era preso dal rimorso, rimpiangeva di non essere riuscito ad abbandonare quel grogio
(in dialetto massese l’incavo n.d.r.) di castagno, uscire allo scoperto e morire con la sua famiglia. Perché così avrebbe dovuto essere. Che ci faceva, ora, sopravvissuto con lo strazio di sua moglie e di suo figlio dentro il cuore? Un tormento senza fine, per una morte lenta, agonizzante.
Non sono di Vinca, ma quel giorno facevo parte di quel paese. Quella tragedia era anche mia. L’orrore mi aveva contaminata, mi era entrato dentro, si era impossessato di me. Quella gente era la mia gente. Quelle persone, poco tempo prima, mi avevano aperto la porta ed accolta dopo il mio lungo viaggio attraverso il passo del Vergheto nelle cime Apuane. Mi avevano rifocillata, offrendomi anche un giaciglio dove riposare. Avevo portato più volte il sale a Vinca e i vinchesi, in cambio, mi avevano dato la farina di castagne. Ero tornata, quel giorno, con il mio sacchetto sulle spalle pieno di sale, per avere ancora della farina. Lo avevo preparato il giorno prima.
Ricordo che insieme ad altre donne di Canevara ero stata al mare. Lì, insieme, raccoglievamo legna nelle pinete bruciando tutto quello che si trovava. Degli stabilimenti balneari non c’era più nemmeno l’’ombra: tutto serviva per il fuoco su cui bollire l’acqua di mare, aspettare l’evaporazione fino a che diventava sale. Quella era la nostra ricchezza, l’unica moneta di scambio per sopravvivere.
Era agosto. Non c’erano ancora le file di donne che si aggiravano per i sentieri delle Apuane perché il grande pellegrinaggio della fame iniziò piuttosto nell’autunno del ’44. Io l’avevo anticipato perché in famiglia c’era tanta miseria. Ero rimasta vedova da poco e dovevo provvedere al sostentamento della mia famiglia. C’era la guerra, la miseria assoluta, la Garfagnana e la Lunigiana erano l’unica alternativa.
Faceva caldo, quel giorno a Vinca, e tra le fronde umide dei castagni il sangue di tanti innocenti si era rappreso. Il ronzio delle mosche attorno era l’unico rumore che rompeva il silenzio assordante, salvo qualche crepitio tra le macerie ancora in fumo. Avevo passato la notte nel casolare, insieme ai pochi vinchesi rimasti. Ero lì, con il mio sacchetto di sale intatto, impietrita davanti a tanto orrore, ma ero lì per cercare di sopravvivere alla fame.

Lasciai Vinca con un profondo ed eterno dolore. Ripresi il cammino verso Monzone, con il sacchetto di sale sulle spalle. Dovevo passare la galleria per la Garfagnana, ma era stata minata. La gente lo sapeva e si fermava all’ingresso aspettando qualche esperto che facesse da guida. Era l’unica strada per proseguire oltre. Fu uno di Canevara a dire ‘seguitemi, ma badate bene di appoggiare il piede esattamente dove lo appoggio io, altrimenti saltiamo tutti in aria’. Oltre l’Appennino portavo tutto quello che avevo: le scarpe e i pantaloni di mio marito, morto da poco, e poi la biancheria di casa, oltre al sale.

Con il cambio si faceva presto a fare il carico. Una volta invece della farina mi diedero una coniglia. Giunta a Vagli di Sotto, dove adesso c’è la diga, la coniglia mi scappò ed io cominciai a correre, a correre forte per riacciuffarla. ‘Ragazza, fermati! E’ tutto minato! E’ tutto minato!’ – urlava qualcuno –. Niente, via dietro la coniglia. Era il cambio, non potevo ritornare a casa a mani vuote. Che importava se era minato? Dovevo riprendere la coniglia, avevo attraversato le Apuane per scambiare un sacchetto di sale e, al posto della farina, mi avevano dato quella dannata coniglia che adesso metteva a repentaglio la mia stessa vita! Alla fine della folle corsa, riuscii a riacciuffarla. Non so come, ma evitai tutte le mine piazzate”.

Albertina, tra l’estate del ’44 e l’inverno del ’45, per ben 18 volte raggiunse la Garfagnana. “Mio marito era morto ad agosto e dopo pochi giorni dovetti prendere la via delle montagne. Lui aveva 32 anni. Lavorava nelle cave di marmo ed ebbe un grave incidente. Durante la lizza, la fune che reggeva il carico di marmo si spezzò e il piro gli colpì un polmone. Non morì, ma era messo male. Poi, con la guerra, partì per lavorare in Germania, nelle ferrovie. Qui, da noi, c’era la fame e la miseria. Le basse temperature della Germania non fecero bene alla sua precaria salute e si ammalò di pleurite. Gli feci avere un telegramma urgente, spacciandomi per mia sorella, in modo da farlo mandare a casa. Come moglie, non avrei potuto, non era concesso. Purtroppo, la malattia aveva già avviato il suo corso. Venne ricoverato presso un sanatorio e dopo poco morì lasciandomi vedova con un bambino piccolo. Dobbiamo ringraziare quei paesi della Lunigiana e delle Garfagnana – afferma – perché ci ha sfamato. Lì abbiamo trovato cibo altrimenti tutta la popolazione sarebbe morta di fame. Lunigianesi e garfagnini ci hanno sempre accolto nelle loro case: ci offrivano quello che avevano: giacigli e pagliericci di fortuna, fatti di fieno e rusco di selva, ma indispensabili per ripararci dal gelo pungente delle notti d’inverno”.

Ogni giorno, era una lotta per la sopravvivenza.

Ognuno cercava di salvare la propria pelle, tanto era il terrore di essere trucidati dalle squadre nazi fasciste. Anche il passaggio a Vinca di Albertina rende l’idea del terrore che regnava in quei giorni. Era una giovane donna quando arrivò sotto il Sagro scoprendo atrocità disumane. Si guardò attorno, osservò, rabbrividì. E si rifugiò nei casolari rimasti dove i pochi sopravvissuti alla strage si strinsero in un penoso abbraccio, ma lei era di passaggio e aveva tanta paura. Doveva trovare cibo, per sfamare la sua famiglia, a casa. Doveva andare, lasciarsi alle spalle il fumo del paese incendiato, i corpi martoriati, l’odore acre delle carni bruciate… e riprendere il sentiero nelle selve di castagno, dove i tronchi sanguinavano ancora per gli orrori perpetrati ai bambini in fasce, per i feti strappati dal ventre delle madri. Albertina doveva andare. Non si poteva fermare. Come quella volta sulla Tambura: “Eravamo in diverse persone a scendere il valico – racconta Albertina –, ma la tormenta di neve aveva reso il passaggio impraticabile. Mia sorella Emilia scivolò e, battendo la testa, perse conoscenza. Io e l’altra mia sorella Elena avevamo provato a scuoterla, ma non si riprendeva. Eravamo lì, allo scoperto, in mezzo alla tormenta di neve. La decisione del gruppo fu quella di proseguire, passare oltre, perché nessuno poteva rischiare. Dovevamo metterci in salvo. ‘Se restiamo rischiamo di essere uccisi – dicevano – dobbiamo proseguire’. E così mia sorella rimase sola tra la neve della Tambura, convinti che fosse morta. Giunti a valle, vinta l’angoscia e superato il pericolo della discesa, mio cognato non se la sentì di andare avanti pensando a Emilia abbandonata e decise di tornare indietro. La raggiunse: ‘Emilia! Emilia! – gridava scuotendola. Emilia aprì gli occhi come per miracolo: era viva’. Preoccupati del ritardo di Amedeo, tornammo tutti indietro. Fu una gioia ritrovare Emilia in vita e mi viene una pena al cuore se penso che l’avevamo abbandonata credendola morta, ma in quei giorni ognuno pensava a difendersi come poteva, senza pensare agli altri. Era una lotta per la sopravvivenza, per tutti. La portammo a valle a spalla, perché era ferita e non poteva camminare. In quel lungo tragitto, fu trovata anche una donna di Caglieglia, madre di cinque figli, morta assiderata nella neve sotto un carico di roba. Era immobile, come stesse seduta. Con le mani reggeva il sacco che portava in testa. Era una statua bianca di neve, con gli occhi sbarrati che fissavano un punto lontano. Il vento muoveva appena i suoi capelli”.

Da “Albertina e le altre” di Angela Maria Fruzzetti. Edizioni Ceccotti, 2015