Io ho adorato mio padre e, del resto, era impossibile non amarlo: affabile, simpatico, spiritoso e molto dolce. Però il mio primo “uomo” è stato il mio nonno materno, Francesco Eliseo Mocchi. Con lui ho avuto un legame davvero speciale. Lo ricordo alto e massiccio come, in realtà, non era, e forte, come, invece, era veramente. L’uomo quercia lo chiamava mio padre. Aveva vissuto, praticamente, sempre con noi e ci aveva aiutato con il suo ultimo lavoro da muratore.
Il nonno aveva cominciato a lavorare da piccolissimo, pascolando le pecore nel suo paese natale: Succiso. Poi aveva fatto molti altri lavori. Lui diceva di aver lavorato sotto terra, sulla terra e sopra la terra. Lui e mio padre si stimavano e si volevano bene. Negli ultimi due anni della sua vita, il nonno Francè era andato a vivere con la zia Elena perché noi avevamo dovuto ospitare il fratello di mia madre bisognoso di cure, ma a mio padre, Francè, mancava. Un giorno trovò me e il nonno Francè a chiacchierare sulle scale d’ingresso della casa e se ne uscì con una imprecazione. Il nonno mi chiese piano: “Ì brontòl p’rché a son chi?” (Brontola perché sono qui?). E mio padre che aveva sentito tutto gli rispose a gran voce: “No, Francè a brontòl p’rchè i nì set!” (No Francè. Brontolo perché non ci siete) e il nonno lo consolò con: “A ì vò pasenzia bel mè Carlo!” (Ci vuole pazienza, caro mio Carlo).
Nel Bugliolo Francè e la sua famiglia erano arrivati da Grazzano, verso la metà degli anni ‘30, per andare a vivere in una piccola casa in sette. Appassionato di cinema e di Amedeo Nazzari, andava a vedere i film del grande attore da solo, perché non c’erano soldi per portarci gli altri. Mia madre, sua figlia, mi raccontava tutta orgogliosa che quando tornava a casa raccontava il film a tutti davanti al camino e i bimbi lo ascoltavano a bocca aperta.
A raccontare il nonno è sempre stato speciale e mi ha incantata fino all’ultimo. Bellissima la sua versione dei nomi dei ponti di Carrara: “Quand i’ s’ fev’n mal’ a le cave ì portav’n ‘l mort prima ‘n’t’la c’sina d’ V’zala e po’ a zù, vers ‘l pont d’ la Busia. I s’ ciam “busia” p’rchè le mà, le moie, le sorede, le fiole di cavatori a s’ m’tev’n tute lì, sul pont, e a s’ dizev’n, l’una a d’altra: “Ma nò, a n’è gnent, il port’n a l’spdal e bà…”. E, ‘ntant, a s’ strapav’n i capedi. A s’ar’contav’n d’ le busie, ‘nsoma. Po’, ‘l mort, i v’ni’v a zù, vers ‘l pont d’ le Lagr’me, che i sì ciam cusì p’rchè lì a s’ sapev ‘nzà ‘l nom d’l mort e le done al pianzev’n. E a zù al pont Barunzin, che i s’ ciam cusì p’rchè a i er i baroci che i caricav’n ‘l mort.” (Quando si facevano male alle cave portavano il morto, prima nella casina di Vezzala e poi giù, verso il ponte della Bugia. Si chiama ponte della Bugia perché le madri, le moglie, le sorelle, le figlie dei cavatori si mettevano tutte lì, sul ponte e si dicevano l’un l’altra: Ma no, non è niente, lo portano all’ospedale e basta. E intanto si strappavano i capelli. Si raccontavano delle bugie, insomma. Dopo, il morto veniva portato giù verso il ponte delle Lacrime, che si chiama così perché lì, ormai sapevano il nome del morto e le donne piangevano. E poi giù fino al ponte Baroncino che si chiama così perché lì c’erano i carretti che caricavano i morti.)
Nonno Francè era nel 1888 e si era, ovviamente, “puppato” la Prima guerra, qualcosina in Africa e pure la seconda guerra, per non farsi mancare niente. Durante la prima aveva perso due figlie di spagnola in un solo giorno e non aveva potuto nemmeno correre a consolare sua moglie. Non era andato a scuola e aveva imparato a leggere e scrivere con la sua prima figlia, Gemma e con “Il bacio di una morta”, “La cieca di Sorrento”, insomma con Carolina Invernizio.
Una volta mi capitò di combinarne una grossa. Noi bimbetti del Bugliolo eravamo andati a giocare agli indiani nella Cavetta. I maschi erano in maggioranza, ma io mi ero fissata che le squaw dovevano comandare, quindi cominciai a dettare le regole. I maschi non ne vollero sapere di sottostare alle mie imposizioni, così io, per protesta, mi nascosi in una cavità delle molte alla Cavetta. Tutti continuarono a giocare mentre io restavo nascosta a sentirli, offesa a morte. Dopo un tempo lunghissimo cominciarono a chiamarmi perché si doveva andare a casa, ma io rimasi ferma nel mio proposito di non scendere. Alla fine se ne andarono e io restai sempre lì finché arrivarono i grandi, nonno Francè compreso, a cercarmi chiamandomi a gran voce, ma anche allora io non mi feci trovare. Ero offesa e punto! Quando cominciò a imbrunire, però, anche la squaw Michi capì che, forse, era il caso di rientrare. Appena arrivai all’inizio del vicolo vidi che c’erano i grandi schierati ad aspettarmi. Fu il nonno ad acchiapparmi: si sedette sulla panchina di marmo, mi tirò su la gonnellina e mi diede due sculaccioni secchi con le sue manone. Io non versai neanche una lacrima perché sapevo che aveva ragione.
La sua storia con la nonna Norina, poi, è davvero particolare, ma ve la racconto un’altra volta, se no a brus tut ‘nsema! (se no, brucio tutto insieme!).