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Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

Sotto al pergolo: vino, cibo, la bella stagione e lo scorrere della vita (1/2)

“Viva Noè ch i ‘npiantò la vigna, e a chi a ni piaz ‘l vin ch a i v’nis la tigna” recita una cantilena popolare e i vecchi carraresi, in osservanza di tale detto, non si facevano mai mancare delle abbondanti libagioni. Tanta era la passione per il vino che il numero eccessivo delle cantine presenti in città, cominciò a preoccupare i governanti di turno che spesso furono costretti a promulgare leggi restrittive. Si temeva, non a torto, che il vino riscaldasse le teste e gli animi e che le cantine fossero luoghi dove si potevano riunire i sovversivi. In parte queste due cose erano vere, anche perché era consuetudine che i padroni di cava usassero la cantina come fosse stata una banca, pagando in quel luogo la quindicina, ovvero il compenso lavorativo di 15 giorni. E molte volte il compenso finiva tutto in bevute senza che nulla, o quasi, arrivasse a casa.

La vite, il vino e la vita delle nostre genti si sono sempre intersecate.

La vite è presente sul territorio fin dai tempi più remoti: con la tecnica del debbio, ovvero l’incendio controllato, furono eliminati i boschi e, con lo scasso e i muri a secco, furono create piane e pianelli, dove la vite venne impiantata. Carrara ha nella zona del Candia un luogo sacro al Dio del vino chiamato Liber, lo stesso che con Ercole e Giove è rappresentato nel bassorilievo di Fantiscritti, conservato presso l’Accademia di Belle Arti. Il luogo sacro è Monte Libero, detto nel tempo, anche Liur, Lib’r, Liv’r o Olivero. Liber rappresentava il dio dell’allegria, del cuore, delle passioni sfrenate, dell’ardire. I romani al vino della nostra zona assegnarono la palma d’oro della qualità su tutta la Toscana: “Etruriae Luna palma habet”.
Nelle piane Avenzine e Marinelle, o nell’immediata periferia carrarese, non vi era abitazione che non avesse, nell’aia prospiciente un pergolo, quasi sempre di uva fragola, vermentino o “Tintoretto”.
Nel centro città numerosissime cantine coltivavano un pergolato d’uva, sotto il quale gli “avventori” giocavano a carte e consumavano merende a base di baccalà marinato, acciughe salate condite con olio, aglio, prezzemolo e abbondante peperoncino, frittelle di baccalà e lupini salati: tutti alimenti che invitavano a bere.

Il pergolato, però, non si trovava soltanto all’esterno delle cantine, ma anche negli spazi e aie private. La sua presenza, creava una zona d’ombra nella quale la famiglia si riparava dalle canicole estive, ma il pergolo era anche un prolungamento della vicina cucina, dove abitualmente si consumavano i pasti. In estate, sotto questa verde cupola all’aperto, ferveva un vero e proprio microcosmo, fatto di socialità e solidarietà. I ragazzini vi giocavano a palla, alla corda, ” alla campana o settimana”, consumando la propria merenda, con grandi fette di pane condito con pomodoro, olio, sale e curniol, ossia origano. Le ragazze, intente a ricamare o cucire, ascoltavano le storie degli anziani, mentre le donne preparavano, con i ferri da calza, maglie e calzini per l’inverno. Sotto il pergolo, quasi sempre, troneggiava un massiccio tavolo interamente in marmo, in grado di sopportare tutte le intemperie: solido e solenne, quasi come un simbolico altare sul quale consumare il cibo, bene assai prezioso.

Seconda e ultima parte.

© Foto Archivio Michelino