foto Archivio Michelino
Si è spenta da poco l’eco delle Olimpiadi parigine, festa di sport nella quale la nazionale italiana ha, ancora una volta, ben figurato, con il suo contorno di colori e coreografie, alcune delle quali oggetto di veementi critiche, nel complesso uniche e sorprendenti per la loro bellezza ed originalità. È la diciassettesima volta, dal 1960, che assisto a questo spettacolo, che dovrebbe essere solo di sport e fratellanza e che, invece, spesso, viene condizionato dagli eventi politici che nulla hanno a che vedere con esso. Già: il 1960, Roma, le prime Olimpiadi visibili in diretta con il nuovo mezzo televisivo non ancora appannaggio di tutti, che stava, però, pian piano, entrando nelle case. Prima di allora le gare si potevano seguire soltanto sui giornali o via etere. Ricordo ancora che, a letto con l’influenza, ascoltavo le radiocronache dei diecimila e dei cinquemila metri dominate da Vladimir Kuc a Melbourne nel ’56. Le Olimpiadi romane offrivano, veramente, un evento mai visto in precedenza. Ebbi la fortuna di avere un amico che, a sua volta, aveva una zia “telemunita”, per cui, appena possibile, ci recavamo da lei che, pazientemente, ci ospitava, sopportando i facili e rumorosi entusiasmi per i nostri atleti che in quel frangente, non dimentichiamolo, vinsero ben 13 medaglie d’oro, 10 d’argento e 13 di bronzo classificandosi terzi dopo l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, rispettivamente con 43 e 34 ori, e davanti alla Germania Unita con 12 ori.
Le trasmissioni cominciavano con l’Inno al Sole dall’ Iris di Pietro Mascagni, inno mai sentito prima ma, che ben presto divenne familiare a tutti noi ragazzi, e poi avanti con le gare ad ammirare atleti del calibro di Wilma Rudolph la “Gazzella nera”, tre ori nei 100, 200 e nella staffetta 4 per 100, Armin Hary, il primo uomo a correre i 100 metri in 10 secondi netti, Cassius Clay, Nino Benvenuti, fino all’apoteosi del nostro Livio Berruti nei 200, il primo europeo in grado di mettersi alle spalle gli atleti statunitensi che, fino ad allora, avevano dominato quella distanza; dopo di lui ci riusciranno solo Valerij Borzov , l’indimenticabile Pietro Mennea ed il greco Kedèris.
E poi ancora Abebe BiKila, l’atleta etiope che corse scalzo la maratona, Al Oerter, re del disco, il tandem di Bianchetto e Beghetto e la sorpresa nel salto in alto di Shavlaq’adze che vinse l’oro prevalendo su Valeri Brumel, futuro ed incontrastato campione del mondo, m. 2,28, fino a quando un incidente di moto non gli spezzò le gambe e la carriera, e sul favorito campione del mondo in carica John Thomas. L’11 settembre udimmo per l’ultima volta l’Inno al Sole, i fantastici giochi di Roma erano conclusi e la fiaccola olimpica partì per Tokio.
Sembrava tutto finito e invece una settimana dopo una delegazione olimpica dei paesi dell’Est volle far visita a Carrara, omaggiandoci di un meeting con i nostri atleti presso lo Stadio dei Marmi. Inutile dire che lo stadio era strapieno: chi poteva perdere un simile evento? Vedere atleti del calibro di Tamara Press, oro nel peso, Tsybulenko, oro nel giavellotto e Shavlaq’adze, oro nell’alto, che simpaticamente dando alcuni mirati consigli alla nostra atleta Marinella Bortoluzzi, le permise di eguagliare il record italiano di salto in alto.
Probabilmente sto dimenticando molti splendidi atleti ma ho ancora ben vivo il momento in cui venne annunciata la scesa in campo di Emil Zatopek, il mito del mezzofondo e della maratona definito la “Locomotiva” per il suo modo di ansimare pesantemente durante la corsa.
Marito di Dana Zatopkova, oro nel giavellotto ad Helsinky ed argento a Roma, fu considerato un eroe nel suo paese diventando una figura influente del Partito Comunista fino a quando, per essersi schierato a favore della Primavera di Praga, dopo l’intervento sovietico fu privato di ogni carica e spedito a lavorare per sette anni nelle miniere di uranio; ma questa è un’altra storia.
Apparve in giacca e cravatta con i colori della Repubblica Ceca e fece un giro di pista sotto lo scroscio degli applausi del pubblico in piedi che rendeva omaggio all’atleta che aveva vinto un oro ed un argento alle Olimpiadi di Londra del 48 e ben tre ori: cinquemila, diecimila e maratona alle Olimpiadi di Helsinky del ‘52.
L’ovazione andò avanti per diversi minuti e ad essa si unirono anche tutti gli atleti in campo quale riconoscimento per l’uomo che nella sua lunga carriera, fra il 1947 ed il 1955, aveva abbattuto tutti i record possibili dai 1.500 alla maratona ivi compresi i cinquemila e i diecimila, primo scendere sotto i 29 minuti, i ventimila, record dell’ora, 25 e 30 mila.
Poi Zatopek volle salire sulle gradinate per salutarci e rilasciare gli autografi ed io, non ricordo bene come, me lo trovai davanti; non avevo né carta né penna, ma lui non si scompose, estrasse una penna dal taschino ed impresse il suo autografo sopra il ginocchio scolorito dei miei Jeans. Jeans che ho tentato caparbiamente di preservare dal lavaggio ma, non disponendo di un vasto guardaroba, prima o poi dovettero finire nell’acqua e sapone. E cosi fu.