Tempo fa ho avuto modo di ascoltare un brano di un’intervista rilasciata da Marco Giallini, l’interprete del televisivo vice questore Schiavone, che alla domanda cosa si augurasse per il futuro, rispondeva: “Che tutti quelli che cantano con l’autotune se ne andassero affanc…”. Questa affermazione mi ha fatto riflettere, ancora una volta, su come la situazione della musica internazionale, per non parlare di quella italiana, sia al momento davvero scadente. Il filosofo e musicologo Theodor Adorno, in una sua opera affermò : “Gli ascoltatori della popular music sono come individui deprivati di ogni residuo di libera volontà da parte della pianificazione centralizzata dell’industria culturale; individui che tendono ad avere reazioni passive a ciò che viene dato loro, e a diventare puri centri di riflessi condizionati” Per capire meglio questa affermazione, ci viene in aiuto un altro spezzone di intervista rilasciata da Frank Zappa (facilmente rintracciabile in rete), in cui egli racconta come funzionava il mercato discografico negli anni ’70: “Quello che è successo negli anni ’70 è che la musica più inusuale e sperimentale veniva registrata e veniva replicata. Ora prova a dare un’occhiata a chi erano i produttori in quei tempi. Non erano giovani alla moda. Erano vecchi col sigaro che guardavano il prodotto che arrivava e dicevano ‘Che ne so! Non ho idea di cosa sia! Registriamolo e pubblichiamolo, se poi vende va bene!’ Stavamo molto meglio con quei tizi, invece che con questi produttori esperti che decidono cosa le persone devono vedere e ascoltare sul mercato. I giovani sono più conservatori e più pericolosi per l’arte, di quei vecchi col sigaro. Il vecchio col sigaro un giorno dice ‘Abbiamo corso un rischio, ma è stato pubblicato e ha venduto qualche milione di copie. Va bene, non ho idea di cosa sia, ma dobbiamo farne di più. Mi servono dei consigli. Assumiamo un hippie.’ Così assumono un hippie e arriva un ragazzo coi capelli lunghi a cui non fanno fare altro che portare il caffè e la posta… poi diventa uno scout e quando diventa lui produttore dice ‘ Beh non possiamo permetterci di rischiare perché non è questo che vogliono i ragazzi ed io lo so bene’ Hanno quell’attitudine ed il giorno che ci libereremo di quell’attitudine e torneremo al ‘Chi lo sa? Proviamoci!’ Quello spirito imprenditoriale per cui anche se non ti piace o non capisci il valore dell’album, la persona che è a capo della produzione, non è necessariamente il rappresentante dei gusti dell’intera popolazione”
Non siamo più liberi di scegliere, dobbiamo farci dire cosa è bello e cosa dobbiamo sentire, cosa dobbiamo consumare. In radio, che non ascolto più da anni, siamo costretti a sentire sempre le stesse canzoni, tutte uguali, tutte con lo stesso ritmo, le stesse parole, le stesse melodie. Io sono dell’idea che dovrebbero fare una legge che vieti l’uso del reggaetton d’estate e per sicurezza, pure d’inverno. Non si sperimenta più, non c’è più il gusto del salto nel vuoto per vedere se si è capaci di volare o ci si sfracella al suolo, pronti per riprovarci dopo aver raccattato tutti i pezzi.
Nell’ottica di questo pensiero, del salto nel vuoto, della sperimentazione ogni oltre limite, è più che giusto e doveroso raccontare la storia di uno degli album musicali più pazzi della storia della musica internazionale. Un disco fuori da ogni schema per il contenuto, per la copertina e per come è stato pensato, composto e registrato. Parlo di un disco doppio del 1969: “Trout mask replica” di Captain Beefheart and his magic band.
La leggenda, o comunque da quanto lo stesso Zappa racconta nella sua autobiografia, vuole che Don van Vliet, suo amico d’infanzia, assunse questo soprannome, ricordando uno zio esibizionista tale “zio Alan”, che, pare, amasse presentare, lasciando la porta del bagno aperta mentre urinava, i suoi organi genitali a una delle prime fidanzatine di Don: «Ahh! What a beauty! It looks just like a big, fine beef heart!» (“Ahh! Che bellezza! Sembra proprio un gran bel cuore di manzo!). Il nome lascia già intravedere di che personaggio stiamo parlando, ma se vi capitasse di mettere il disco nel vostro impianto sono sicuro che dopo due minuti vi chiedereste “ma che c… sto ascoltando?” e lo scaraventereste fuori dalla finestra, maledicendo il momento in cui avete speso quei soldi per comprarlo.
Sì, perchè la copertina è strana, ma attira. Cal Schenkel, un autentico guru dell’epoca, ebbe l’idea di andare a comprare una testa di carpa in pescheria da usare per la cover e Van Vliet, indossando un cappello da quacchero, insistette per fare una foto che lo riatraeva mentre la regge di fronte al suo viso. E questo è ciò che vedete in copertina. La situazione divenne ancor più paradossale quando il cantante, rapito da chissà quale spirito artistico, si mise a suonare il sassofono attraverso la bocca del pesce. Dopo alcune ore di prove, anche a causa del calore sviluppatosi, il pesce iniziò a puzzare in maniera decisa e tutto l’ambiente si permeò di una strana atmosfera creativa. Schenkel affermò di conservare le foto di quell’evento, ma nessuno le ha mai viste. Trout mask replica, significa pressappoco “copia della maschera da trota”, forse perché la carpa è simile alla trota o forse per indicare all’utente finale che ciò che troverà nell’album non è esattamente ciò che dovrebbe aspettarsi. Per ideare i brani del disco, Beefheart si comportò come un despota impazzito che esercitava il controllo più totale sul resto della band. E non stiamo parlando di ragazzi che non sapevano cosa fosse la musica, ma di gente del calibro di Bill Harkleroad “Zoot Horn Rollo”, chitarra e flauto, Jeff Cotton “Antennae Jimmy Semens”, chitarra e voce, Victor Hayden “The Mascara Snake”, clarinetto basso, Mark Boston “Rockette Morton”, basso e John French “Drumbo”, batteria e percussioni varie. Van Vliet stesso, oltre a cantare, suonava l’armonica, il sassofono tenore e soprano, il clarinetto basso, ma non il pianoforte, di cui non aveva assolutamente idea di come funzionasse e nonostante tutto, dopo essersi seduto lì davanti per otto ore consecutive, ideò dei frammenti musicali poi utilizzati per arrangiare tutte le canzoni (tranne due) dell’album. Il suo controllo sui componenti della band era qualcosa che spesso sfociava nella violenza psicologica, a cui tutti si piegavano volontariamente. A nessuno, per tutti gli otto mesi necessari alla preparazione, fu permesso di uscire di casa se non raramente ed in uno di questi episodi, alcuni di loro furono arrestati per furto di cibo in un supermercato della zona (Zappa li tirò fuori) perché, come raccontato da French stesso, mangiavano non più di una tazza di soia a testa al giorno. Vivevano di sussidi governativi e dei pochi soldi che la madre di uno di loro gli mandava giusto per pagare l’affitto. Esisteva in quella casa in cui si rinchiusero, in un quartiere di Los Angeles a Woodlands Hill, un barile in cui a turno, Beefheart compreso, i musicisti dovevano infilarsi dentro e una volta accovacciati, costretti subire gli insulti degli altri per ore, a volte per giorni! Era quella che tutti conoscevano come la chiacchierata, a cui si sottoponevano oltre alle più di quattordici ore giornaliere di prove imposte per imparare i brani praticamente a memoria e se avrete l’ardire di ascoltarli tutti e 28, si capisce che non dovette essere cosa facile. Il metodo, l’idea di come comporre quella musica doveva essere qualcosa di assolutamente fuori dagli schemi e tutte le bizzarrie del capo, comprese quelle del pianoforte, venivano poi accompagnate dall’arrangiamento di John French, sempre dopo la severa revisione di Beefheart che a quanto si dice, a progetto concluso, lo scaraventò letteralmente giù dalle scale escludendolo dalla band. Tant’è che il buon Drumbo non compare tra gli autori in copertina.
Il controllo mentale totale dei musicisti ed il loro logorio psicologico e fisico era un preciso obiettivo di Van Vliet, come unico metodo per ottenere un prodotto che si accostasse il più possibile alla sua idea di musica che non solo ascoltava, ma vedeva. Quando si trattò di sovraincidere la parte vocale, si rifiutò di infilarsi le cuffie per cui spesso la sua voce risulta fuori sincrono dalla musica, anzi spesso si sentono rumori di fondo, il riverbero dei vetri della sala d’incisione, un cane che abbaia per strada e in un pezzo addirittura la voce di Zappa (produttore del disco) che dice “Cavoli, da dove arriva quell’armonia?”. Anche i versi, parte ugualmente importante del percorso narrativo delle canzoni, raccontano storie grottesche, a volte senza alcun senso, il tutto scandito da parole spezzate, mal pronunciate o inventate per mostrare il lato grottesco e stupido dell’essere umano. Il vinile venne pubblicato il 16 giugno del 1969 in formato doppio ed anche qui per non concedere nulla all’ascoltatore, il primo disco aveva i lati 1-4 ed il secondo 2-3, in modo tale che per essere ascoltato in sequenza bisognava cambiare il disco quattro volte.
Nessuno avrebbe mai speso soldi per stampare un disco del genere, specie con il nome che Captain Beefheart si portava dietro, ma la soluzione venne quando Frank Zappa, scocciato dalle pretese dei produttori di allora, fondò la “Bizarre Records”, offrendo così al suo amico la possibilità di esprimere appieno la sua creatività e dando vita a quello, che oggi viene considerato come una pietra miliare della discografia internazionale. Un disco che, piaccia a non piaccia, tutti dovrebbero avere nella propria collezione. Le canzoni in esso contenuto sono tutto ciò che di più distante esiste dal concetto di ritmo, armonia e melodia, un concentrato di tutti gli stili che possono venirvi in mente, infilati nel frullatore e rimessi nel piatto a casaccio. Un disco che non può essere ascoltato tutto di un fiato, ma un po’ alla volta, dosato nel tempo e nelle quantità per poterne assaporare ogni minuscolo frammento. Sempre Zappa in una delle sue primissime apparizioni in televisione, disse che ogni vibrazione prodotta da un oggetto nell’aria diventa un suono e due o più suoni messi insieme fanno musica. Edgar Varèse, colui che Zappa considerava il padre spirituale del Freak, soleva dire che non era importante discutere sulla sperimentalità della sua musica, ma di cosa fosse capace di sperimentare l’udito dell’ascoltatore. La palla viene lasciata quindi all’utente finale che decide se quei suoni, quella musica, sono di suo gradimento o no. Il senso del piacere e della bellezza convenzionale, in Trout mask replica, viene scomposto e restituito all’ascoltatore che ne trarrà beneficio come, quando e se vuole. Sperimentare, ricercare, stupire come, in Italia, un autore come Battiato cercò di fare con canzoni al limite della concezione umana, canzoni che lui stesso non osò tirare fuori dal cassetto perché troppo complicate anche per lui. Avremmo bisogno di più teste di carpa nella nostra vita, per interrogarci sul senso estetico della nostra esistenza e magari imparare ad apprezzarla di più.