La panzanella è un piatto tipico toscano, diffuso anche in Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo. È un cibo povero, la cui antica origine è da ricercarsi molto probabilmente nella necessità di sfruttare il pane raffermo. Lo si bagna con l’acqua per renderlo docile ai denti e, una volta sbriciolato, lo si arricchisce di verdure del campo. Si sa che una versione molto simile all’attuale, con pomodori, cetrioli, cipolla e basilico, fu servita ai tempi di Firenze capitale, nell’antico castello di Brolio, da Bettino Ricasoli al Re Vittorio Emanuele, arrivato nel Chianti per una battuta di caccia. Il pane deve essere quello senza sale, sciapo, per intendersi. Non amato dai forestieri, ma perfetto per accogliere la sapidità del salame e del prosciutto toscano e presente probabilmente già ai tempi di Dante. “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui”. Non fu solo Firenze a rinunciare all’uso del sale come ripicca contro Pisa o per fare economie. Anche altre zone dell’Italia centrale ne fecero a meno per le alte gabelle da pagare. Andando a ritroso nel tempo, una versione antica della panzanella è descritta nei “Salterelli dell’Abbrucia” da Agnolo di Cosimo, ovverosia il Bronzino:
Chi vuol trapassar sopra le stelle,
Di melodia, v’aggiunga olio e aceto
E’ntinga il pane e mangi a tira pelle.
Un insalata di cipolla trita
Colla porcellanetta e citriuoli
Vince ogni altro piacer di questa vita.
Questo trapassa l’amor de’ fagiuoli,
E d’amici, e di donne, che con essi
T’ammazzeresti per due boccon soli.
Considerate un po’ s’aggiungessi
Basilico e ruchetta, oh per averne…
Pittore e poeta alla corte di Cosimo I dei Medici, il Bronzino scrisse sonetti in un linguaggio burlesco con doppi sensi e allusioni molto oscene spesso studiate per nasconderne altre più criptiche. Parlando della panzanella, cita la rucola e la “porcellanetta”, vale a dire la portulaca, ma non il pomodoro perché ancora non si considerava edibile e si usava solo a scopo decorativo. Pur avendo elogiato le nobili pietanze servite in occasione del matrimonio di Cosimo I ed Eleonora di Toledo, l’artista dedicò tutto un poemetto all’umile cipolla, plausibilmente interpretabile come simbolo fallico:
Chi vorrà dir della lor gentilezza
bisognerà che si faccia discosto
e cadane toccando con destrezza.
(…)
Voi torrete un coltel che rada il pelo
e taglierete una per traverso
Quivi si scorge tutto l’universo
A seconda delle zone geografiche e delle massaie, la panzanella ha le proprie varianti. Io la preparo nelle estati afose fiorentine. È fresca, appagante. È sensuale spremere e strizzare il pane bagnato, ridargli vita e mescolarlo ai cetrioli, ai pomodori e alla cipolla. I colori, i sapori e le consistenze, morbide e turgide, si fondono. Condisco con sale, olio, aceto e profumo con “l’erba del re”, vale a dire il basilico, considerato in passato magico, quasi diabolico e utile a risollevare lo sconforto. E se si versano delle lacrime durante il taglio delle cipolle, subito trionfa il sorriso pensando all’origine della parola “panzanella”. Che giri fanno i lemmi nel corso della storia! Il nome deriva forse da pan-zanella, considerando che una zanella è la zuppiera? O forse è l’anagramma di “zampanella” crespella molto sottile da cui nasce il borlengo, specialità di Guiglia, in Emilia? Più accreditata tra tutte è l’origine da “panzana” che significava una pappa, probabilmente dal verbo del latino volgare pactiare, comprimere’, derivato di pactum, secolo XVI°, participio passato di pangere, ‘conficcare’. Sappiamo che in senso figurato “raccontar panzane” significa dire fandonie. Facile intuire che ispirandosi al “cibo raffazzonato con pane vecchio, di scarso valore”, si sia passati a “bugia che si rifila, poco affidabile”. Pure l’etimologia del “borlengo” , di cui si hanno notizie già nel 1266, fa risalire il termine a “burla”, interessante, no?
Anche il Boccaccio nel suo Decameron nomina indirettamente la panzanella, sotto forma di pane bagnato e lo fa nella settima novella dell’ottava giornata allorché si raccontano le beffe che gli uomini si possono fare a vicenda. Un giovane amante burla, per vendetta, la sua bella vedova lasciandola per ore e ore su una torre, nuda, sotto il sole, tra mosche e tafani. Quando la donna è tratta in salvo, i suoi contadini, le offrono un piatto “panzanella”.
“La moglie del lavoratore, datole mangiar pan lavato e poi spogliatala, nel letto la mise, e ordinarono che essa e la fante fosser la notte portate a Firenze; e così fu fatto”. Un panmòllo rinfrescante e consolatorio, ordunque.