Licciana è un borgo di poco più di quattromila abitanti, che si sviluppa lungo le sponde del torrente Taverone, in quella parte dell’alta Lunigiana che, da Aulla, si biforca e prosegue verso Parma, passando per Villafranca in Lunigiana e poi Pontremoli. È soprannominato il “covo di eroi” ed è per due di essi che dal 1933, questo comune associa il proprio nome al loro cognome, assumendo quello di Licciana Nardi.
Il 3 febbraio del 1768, nella frazione di Apella, nacque Biagio Nardi: dopo una breve esperienza all’università di Parma, tornò alle sue terre, dove fu ordinato sacerdote e dove esercitò il ministero, spostandosi poi a Firenze e Correggio dove esercitò anche la professione di maestro elementare. Con la calata di Napoleone in Italia, nel 1796 abbandonò la veste talare, riprendendo gli studi universitari a Modena e si laureò in Giurisprudenza. Divenne avvocato e, raggiunto il successo, si sposò con un’attrice teatrale, Maria Bulgani, che gli diede sei figli. A seguito dei moti rivoluzionari che sconvolsero l’Europa nel 1831 e che portarono all’indipendenza del Belgio, al cambio di re in Francia e alle insurrezioni in Polonia, Germania e nello Stato Pontificio, Biagio Nardi fu rapito dal sentimento di libertà e si fece promotore delle iniziative libertarie di Modena. Il 9 febbraio fu decretata la fine della guida della casata ducale e Nardi si autodefinì dittatore, nell’attesa che venisse definita una più chiara strategia politica. Tentò di unire alla rivoluzione anche Reggio Emilia, ma solo un mese dopo, il suo progetto fallì e dovette fuggire inizialmente a Bologna, poi ad Ancona ed infine a Corfù, allora sotto la dominazione britannica.
L’amico conte Luigi Maineri, direttore e ispettore generale delle poste ducali, lo aiutò a mantenere contatti epistolari con la famiglia ed il resto del mondo. Grazie alla sua influenza riuscì a comunicare con il duca Francesco IV, al quale rivolse una domanda di grazia, che venne però rigettata. Coltivò la speranza di potersi stabilire un giorno nel Granducato di Toscana o nello Stato Pontificio, ma la morte lo colse sull’isola di Corfù il 27 luglio del 1835. Nemmeno questo evento lo salvò dalla condanna emessa ben due anni dopo dalla commissione statuaria del ducato di Modena che, addirittura, lo condannò a morte per impiccagione con conseguente confisca dei beni. La sentenza non venne mai eseguita, ma evidentemente il sangue rivoluzionario scorreva potente nelle sue vene tanto che, qualche anno dopo, toccò ad un suo nipote riprendere la battaglia con esiti però più nefasti.
A dir la verità Anacarsi Nardi, già trentenne, aveva condiviso con lo zio i sentimenti rivoluzionari raggiungendolo a Modena durante il breve periodo di governo “sovversivo”, ricoprendo la carica di segretario di governo. Con la restaurazione del ducato, seguì lo zio nel suo peregrinare fuggiasco a Bologna, Ancona e poi Corfù. Anche lui chiese la grazia che non arrivò mai e fu sottoposto a processo, ottenendo una condanna a dieci anni di reclusione. La permanenza sull’isola deteriorò i suoi rapporti con Biagio, che ormai si avviava alla morte roso sia dagli effetti dell’insuccesso nel realizzare il sogno di riunificare i ducati di Modena e Massa, sia dalla nostalgia di Modena. Anacarsi sposò la contessa Marianna Grabinski Broglio, diventandone agente ed amministratore e cominciò a stringere rapporti sempre più frequenti con esuli italiani, in particolare modo con il medico modenese Tito Savelli, giunto sull’isola due anni dopo di lui. Erano soliti ritrovarsi all’Exoria, una villa fatta costruire dal Savelli, trasformandola in un vero e proprio ritrovo di personaggi ed idee, tra le quali c’era anche quella di compiere gesti eclatanti sul suolo italiano, al fine di sollevare la popolazione locale e dare il via ad una vera e propria guerra di indipendenza. L’occasione buona si presentò quando a Corfù, nel 1844, sbarcarono Attilio ed Emilio Bandiera, ufficiali disertori della Regia Marina asburgica che, nel 1841, avevano ideato e creato la società segreta Esperia, connessa alla Giovine Italia di Mazzini. Erano in fuga, dopo aver tentato di accendere una ribellione nel sud Italia e ardevano dal desiderio di ritornarvici, più precisamente in Calabria, perchè a Cosenza un focolare rivoluzionario, guidato dal capitano Galoppi aveva già preso piede. Il 13 giugno i due fratelli, insieme ad Anacarsi Nardi, al brigante calabrese Giuseppe Meluso ed altri 15 patrioti si imbarcarono alla volta della foce del fiume Neto vicino Cosenza, capitale dell’allora Calabria citeriore. Non avevano saputo che il moto guidato dal Galuppi era naufragato nel sangue e colmi di fervore patriottico, decisero di proseguire nel loro intento, ma la popolazione non li appoggiò. Diretti verso i monti della Sila, un membro della loro spedizione, il brigante corso Pietro Boccheciampe, li tradì e li consegnò alla polizia borbonica che dopo un agguato avvenuto in contrada Canale della Stràgola, presso l’abitato di San Giovanni in Fiore, risoltosi con un breve conflitto a fuoco, li trasse in arresto. I fratelli Bandiera, Meluso, Nardi ed altri sei furono processati con l’accusa di “lesa maestà, cospirazione, violenza contro la forza pubblica” e condannati a morte per fucilazione, avvenuta il 25 luglio 1844 al grido di “Viva l’Italia”.
La salma di Anacarsi, sepolta nel duomo di Cosenza, fu trasferita solo nel 1910 nel monumento ossario che ancor oggi possiamo ammirare nella piazza di fronte al municipio di Licciana. Anacarsi Nardi è il simbolo di un periodo in cui i giovani studenti, animati da vero sentimento patriottico, avevano ben chiaro in mente il significato di libertà e non si tiravano indietro di fronte alle grandi sfide che animavano il loro tempo. È per questo che parole come coraggio, sacrificio, patria e lealtà non li hanno mai spaventati e li hanno anzi spinti alla battaglia incuranti delle più estreme conseguenze in nome di un principio più alto, quello della nazione, dell’Italia. Sapranno i giovani di domani prenderne esempio?