Lunigiana terra di castelli, questo l’ho ripetuto tante volte ed altrettante lo farò: terra, anche, della potente famiglia dei Malaspina che, nel bene o nel male ne ha segnato la storia, lasciando tracce più che visibili ai nostri occhi, ancor oggi. Come ho raccontato parecchie volte, questa famiglia ha origini lontane: dagli Obertenghi e da lì Obizzo I, Obizzo II e poi ancora Alberto II, forse il primo a farsi chiamare Malaspina, dal quale, poi, è discesa tutta la dinastia ha preso questo nome. Nel tempo le varie vicende familiari hanno fatto sì che ogni discendente governasse su un piccolo territorio, a guardia del quale metteva un castello col proprio regnante e a volte col proprio esercito. È questo, in soldoni, il motivo per cui, ovunque si vada in Lunigiana, terra tanto amata (e controllata) dai Malaspina, si può trovare un castello riconducibile a loro. I castelli malaspiniani sono più di 50: alcuni ridotti ormai a quattro mura diroccate, altri invece che godono di discreta salute; la storia, i conflitti o a volte semplicemente il fato ne hanno condizionato la loro fortuna.
Tresana, un piccolo comune incastonato nella valle del torrente Osca, conserva, ancora oggi, un maniero che è possibile visitare grazie alla sapiente opera di restauro e conservazione operata in questo ultimo decennio. Il castello di Tresana è degno di nota però per un fatto singolare che avvenne a cavallo tra il XVI ed il XVII secolo e che pochi conoscono. Nel 1596, nacque, da Francesco Guglielmo marchese di Tresana e da Susanna di Vincenzo Malaspina dei marchesi di Monteregio, Guglielmo II primogenito ed erede della dinastia locale. Sposarsi tra consaguinei, ovvero tra cugini, era pratica ricorrente in tutta la nobiltà europea per conservare i beni di famiglia, ma, come ben sappiamo, fare figli con parenti prossimi aveva dei rischi pesanti che potevano ricadere sulla salute mentale delle progenie, come, probabilmente, accade in questo caso. Guglielmo, alla morte del padre, il 10 settembre 1613, fu investito signore dei possedimenti lunigianesi, dal governatore spagnolo di Milano Juan Hurtado de Mendoza, per conto di Filippo III, re di Spagna e duca di Milano, a cui i feudi Malspiniani appartenevano. Alla morte della madre, avvenuta quando aveva 25 anni, la conduzione del governo passò nelle sue mani e gli episodi di violenza, che già si erano verificati sotto la supervisione materna, si moltiplicarono tanto da attirare a sé l’odio di tutta la popolazione locale. Brutalità, violenze soprattutto a carico di donne, avvennero anche con la complicità del fratello Jacopo, che, alla fine, fu ucciso dagli abitanti di Tresana nel 1650. Guglielmo ne combinò davvero di ogni sorta: dalle nostre parti si usa dire “più di Carlo in Francia”. Nel 1618 fu accusato dell’omicidio di un certo Pisella, del feudo di Lusuolo e nello stesso anno fu indicato come il mandante dell’omicidio del prete Francesco Pasqualino Meneghetti. Nel 1619 fece imprigionare Domenico di Prunentino di Fontanedo e sua moglie, per poter abusare della loro figlia e ancora nello stesso anno, violentò una quattordicenne, passandola poi ai suoi servitori che le resero lo stesso servizio. Reintrodusse alcune tasse ormai superate, oberando i suoi sudditi fino a tal punto che, già nel 1617 i tresanesi fecero di tutto per passare sotto la tutela della Repubblica di Genova. Naturalmente il despota si oppose strenuamente, appellandosi anche ai Medici, e nel 1627, proprio su istanza del Granduca di Toscana, Guglielmo II fu imprigionato nel castello di Malgrate con l’accusa di aver ucciso a colpi di archibugio Rinaldo Malaspina di Suvero. Il processo si tenne a Milano nel 1634 con la confisca dei suoi beni feudali ed allodiali che però non avvenne subito, ma alla sua morte nel 1652 e, come conseguenza, il feudo venne acquisito dal ducato di Milano.
Personaggio strano, ambiguo, Francesco Guglielmo : nel 1623, oltre a numerosi altri reati, gliene venne imputato uno alquanto inusuale, il conio di moneta falsa. Già nel 1571, il padre (e ancor prima il nonno) aveva ottenuto dall’Imperatore Massimiliano II il potere di battere conio, ovvero di fare monete. Era un privilegio non da poco per l’epoca, indice di un gran prestigio agli occhi del monarca e che era stato concesso solo ad altri due marchesati, quello dei Malaspina di Fosdinovo e dei Cybo Malaspina di Massa. Un riconoscimento di fedeltà che, però, rivestiva anche l’incaricato di un sacco di responsabilità, tanto che il conio di monete false era considerato un reato di lesa maestà e per questo le pene erano terribili. La tortura ed il rogo erano il minimo che uno potesse aspettarsi come pena per questo crimine. Pensate che a Bologna nel 1288 furono arrestati due personaggi incolpati di aver battuto una trentina di iperperi d’oro bizantini e di aver tratto in inganno due commercianti bolognesi che li avevano cambiati per 21 soldi l’uno. Non sono a conoscenza di quanto fosse il valore all’epoca, ma la risposta delle autorità fu così veloce e violenta, che i due vennero condannati al rogo, e, per far capire che ai banchieri non si poteva commettere un simile affronto, ad uno dei due, prima di essere ucciso furono colate in gola le monete d’oro false. L’altro, forse perché tutte le monete incriminate erano già state fuse, fu bollito dentro una caldaia e solo dopo, ammesso che fosse ancora vivo, fu bruciato sulla pira. La falsificazione monetaria era uno di quei pochi reati che vedeva tutti regni, pure se in guerra tra di loro, fare fronte comune perché il commercio, alla fin fine, era alla base di ogni economia.
Tornando a Guglielmo, essendo spesso fuori territorio, affidò la cura della zecca al fidato Castruccio Baldissori che però, vista l’assenza del padrone, si accordò con Claudio di Antonio Anglese, francese, per coniare un gran quantitativo di monete false a diversi persone di Francia, Savoia, Venezia, Genova, Bologna, Massa e Roma. Lo smercio fu affidato ad un mercante e negoziante veronese, l’ebreo Salomone, detto Flaminio, che spacciò le monete un po’ dappertutto, soprattutto in Veneto. Scoperto l’inganno Guglielmo diede ordine al suo luogotenente di incarcerare lo zecchiere ma questi lo fece scappare scomparendo lui stesso dal feudo. Guglielmo fece condannare al rogo lo zecchiere ed alla forca il Baldissori che però, non scontarono mai la loro pena. Raccolse allora tutte le prove necessarie per trovare un colpevole da condannare e fece arrestare il povero Salomone che, forse anche a causa della sua religione, il 20 novembre 1598 la pagò per tutti e fu arso vivo.
Papa Clemente VIII, danneggiato da tale misfatto, incolpò Guglielmo del traffico illecito e lo convocò a Roma per essere processato, ma, lui, consigliato dal Granduca Ferdinando de Medici, non si presentò, beccandosi una multa di diecimila ducati d’oro che non si sognò nemmeno di pagare e che gli costò una scomunica. Tresana si ribellò costringendolo ad una fuga verso Modena, dove si rifugiò e si appellò, con esiti per altro negativi, all’imperatore per riottenere ciò che gli spettava. Solo anni dopo, nel 1606, dopo diverse peripezie, riuscì ad ottenere, grazie all’intervento del governatore Fuentes, la possibilità di rientrare in possesso delle sue terre.
Non sappiamo bene dove fosse ubicata questa zecca, ma sappiamo che il figlio Guglielmo II, quello violento e dissoluto di cui abbiamo parlato prima, memore delle disavventure del padre e soprattutto a corto di denaro, la fece riaprire affidandola questa volta ad un vero e proprio falsario tale Giovanni Agostino Rivarola, attivo poi anche a Massa, Correggio, Ferrara e Mirandola, che però per fortuna sua, fu arrestato evitandosi guai ben più grossi anche se, come abbiamo letto, il destino gli presentò il conto sotto forma di colpo apoplettico con gran gioia dei suoi sudditi e dei regnanti vicini che sia gettarono come degli avvoltoi sul feudo di Tresana.
I castelli sono quasi sempre luoghi preferiti per storie di fantasmi, di amori ostacolati, di omicidi tra parenti ma qui in Lunigiana tutto è diverso per cui una bella storia di falsari, rende questa terra ancorapiù misteriosa, affascinante e curiosa. Dopo aver letto questa storia, se qualcuno in passato avesse trovato delle monete vicino al castello di Tresana, avrà ben donde di chi edersi se siano vere o scappate dalle tasche del povero Salomone.
Teche GdN: MONETE FALSE E FALSARI A BOLOGNA DAL MEDIOEVO AL NOVECENTO