Nel 1576 l’ ammiraglio della Repubblica di Genova, Andrea Doria, decise che i cinque membri del Serenissimo Collegio dovessero essere estratti a sorte semestralmente fra i 120 notabili della città. Subito nacque una riffa, nella quale si scommettevano i cinque numeri, dall’uno al centoventi, che sarebbero stati estratti. Poi il numero dei notabili passò a novanta ed ecco il lotto così come si presenta oggi. Questo gioco fu, nel corso dei secoli, più volte proibito, ma, puntualmente, riammesso nei vari stati, ivi compreso lo stato Pontificio, finché, nel 1863, fu regolamentato definitivamente nel neonato regno d’Italia. Vennero create prima otto e successivamente dieci “ruote”, ovvero le città dove i cinque numeri venivano estratti ogni settimana e, da allora, sostanzialmente, nulla è cambiato, salvo aumentare il numero di estrazioni settimanali e creare un’undicesima ruota.
Ora, si badi bene: questo è un gioco “non equo” in quanto lo Stato, cioè il banco, non paga quello che statisticamente dovrebbe. Ad esempio, per un numero azzeccato su una ruota dovrebbe pagare 18 volte la posta, invece la paga poco più di 11,23 volte, oltre ovviamente a trattenere l’otto per cento di tasse e così via, diminuendo progressivamente quanto statisticamente dovuto, man mano che la vincita, in caso di ambo, terno, quaterna o cinquina, aumenta. Insomma, il banco vince sempre. Ma perché questo gioco divenne così praticato allora come lo è ancora tutt’oggi? Semplice: perché permetteva anche ai più poveri di sperare, con una minima puntata, di risolvere i problemi di una vita. Si pensi che una cinquina secca, cioè scommessa su una sola ruota, può fruttare sei milioni di volte la puntata!
Ovviamente su tale fenomeno sono nate le storie più varie, dal mondo della musica :“ho giocato tre numeri al lotto, venticinque, sessanta e trentotto li ho giocati convinto perché usciranno tutti e tre: ho fatto un sogno…” come recitava una vecchia canzone di Van Wood alla fine degli anni cinquanta, al teatro con “Non ti pago” una commedia del grande Eduardo De Filippo degli anni quaranta, dove, il protagonista, titolare di una ricevitoria, rifiuta di pagare la vincita allo spasimante della figlia perché i numeri gli erano stati dati in sogno dal di lui padre e poi ancora il cinema con “Totò e i re di Roma”, nel quale il principe della risata, disperato per le sue miserie, decide di morire per dare, dall’aldilà, un terno secco alla sua famiglia ed affrancarla così dall’indigenza.
Come si vede il leitmotiv è sempre il solito: il sogno, durante il quale vengono dati, da un caro estinto, spesso in maniera criptica, dei numeri da giocare. A tale proposito esiste un libretto “La Smorfia napoletana” che cerca di dare un senso alle parole dei sogni per trasformarle appunto in numeri. Ora vi chiederete il perché di questa lunga, spero non noiosa, premessa: beh, se avrete la pazienza di proseguire ve lo spiego.
Dovete sapere che mia moglie, quand’era in vita, giocava raramente al lotto ma, se le capitava d’interpretare un sogno, non esitava di farlo e talvolta, non sempre, azzeccava un ambo sulla sua ruota preferita: Firenze. La cosa, fra me e lei, era oggetto di discussione in quanto io, scettico e razionale, rifiutavo di accettare questa strampalata teoria dei sogni, appellandomi alle leggi della statistica, alla curva gaussiana ed a quant’altro servisse per dimostrare l’infondatezza dei suoi ragionamenti. Come quella volta in cui, fermi con la macchina ad un semaforo, mi chiese di accostare per andare a giocare dei numeri ad una ricevitoria lì vicino; nel frattempo scattò il verde ed io, sollecitato dai clacson che cominciavano a suonare, partii dicendo “Ma figurati se escono quei numeri, con i soldi della puntata ci andiamo a mangiare anzi una pizza!”. Il sabato successivo i numeri uscirono regolarmente e, beh, non vi sto a raccontare la sua ironia e la mia imbarazzata difesa. Poi lei, dopo tanti anni felici passati assieme, venne a mancare e da allora spesso al mattino, poco prima di svegliarmi, sogno di parlarle come fosse ancora con me. Bene, una decina di giorni fa, durante una delle solite chiacchierate, liberi di non credermi, sparisce ed al suo posto una strana e nitida voce mi dice “devi giocare il 41 il 30 giugno”, Ovviamente non dò peso alla cosa e mi guardo bene dal farlo, però, dopo un paio di giorni, racconto questo strano sogno a mia figlia la quale va subito a vedere le estrazioni del lotto relative ed eccoli lì, 41, 6 (giugno) e 30 sulla ruota di Firenze! Il mio scetticismo comincia a vacillare. Al punto che una settimana dopo, durante una nuova chiacchierata in fase REM, mi chiede “Come stiamo a soldi?” Sapendo quanto lei ci tenesse ad avere sempre un piccolo gruzzoletto da parte perché “non si sa mai”, la rassicuro dicendo :“Tranquilla ne abbiamo abbastanza per vivere sereni”. “Mah, sarà” mi risponde e sparisce; ecco la solita strana voce che mi chiede quanti anni ho “Ottanta” rispondo e la voce “Però li porti bene” ed io di risposta “Li ho compiuti da soli dodici giorni” e mi chiede ancora “ Da quanti anni sei in pensione?” ed io “Quattordici”, chissà poi perché, visto che sono in pensione da ventitré anni.
Mi sveglio di soprassalto e decido: stavolta al diavolo la razionalità e me li gioco. Vado alla più vicina ricevitoria e punto su 80, 12 e 14 cinque euro sull’ambo e cinque sul terno secchi sulla ruota di Firenze dicendo al ricevitore “se mi rivede domani pago da bere”. La sera racconto a mia figlia del sogno e della mia giocata e lei va subito a controllare l’estrazione del giorno e, roba da non credere, eccoli puntuali 80 e 12 sulle ruote di Firenze e Milano! Il mattino dopo in ricevitoria mi danno 383,30 euro, spesi quasi tutti in una bella cena con i miei cari; lascio pagati dieci caffè “sospesi”, secondo la bella tradizione napoletana, e me ne torno a casa felice per la vincita, ancorché modesta, ma nel contempo turbato, sentendo vacillare tutte le mie certezze. Mi appello pertanto al noumeno kantiano, il pensabile ma non conoscibile, in attesa che qualcuno riesca a trasformarlo in fenomeno dimostrabile. Per la cronaca ancora oggi sulla ruota di Firenze, ad una settimana di distanza, sono usciti 80 e 14 che ovviamente non ho giocato, ancora frastornato dagli avvenimenti precedenti, contravvenendo ad una delle regole più importanti della Smorfia: i numeri sognati devono essere giocati per tre volte.
A questo punto non mi resta che concludere con il titolo di una spassosa commedia di Peppino De Filippo: “Non è vero, ma ci credo”.