“Tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi ed indipendenti. Quest’eguaglianza e necessaria per costituire un governo libero. Bisogna che ognuno sia uguale all’altro nel diritto naturale.”Queste sono le parole che, un giorno, il signor Filippo Mazzei rivolse al suo vicino di casa, che, colpito da tanta profondità intellettuale e umana, decise di inserirle in un documento che fece la storia dell’epoca e che ancora oggi rimbomba nelle orecchie di ogni americano che si rispetti.
“…E noi riteniamo di per se stesse evidenti le seguenti verità. Che tutti gli uomini sono stati creati uguali e dotati dal Loro Creatore di certi Diritti inalienabili che tra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità….”. Era il 4 luglio del 1776, e Thomas Jefferson terzo presidente degli Stati Uniti, insieme ad altri 55 firmatari, aveva appena emanato la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America. Filippo Mazzei nacque a Poggio a Caiano il giorno di Natale del 1730, studiò a Firenze e Pisa dopo e nel 1752 si stabilì a Livorno dove esercitò la professione di medico insieme al suo collega e amico Solinas.Dopo un paio di anni i due si trasferirono a Smirne in Turchia, dove, per qualche anno, Mazzei fece anche il chirurgo. Nel 1752 si trasferì a Londra per iniziare la carriera mercantile, soprattutto importando vino, ma non riuscendo nell’impresa, per sopravvivere si improvvisò professore di lingua italiana. Gli affari non dovettero andar bene, per cui si vide costretto a tornare in Italia, ma fu costretto ancora una volta scappare dal suo paese per non dover affrontare le conseguenze di una denuncia fatta al Tribunale dell’Inquisizione per “importazione di libri proibiti”. La sua mentalità era satura degli ideali illuministi ed era convinto della libertà di poter aderire a qualsiasi credo religioso, cosa non ancora accettata in Italia, ma già scontata in Inghilterra, dove dovette rifugiarsi ancora una volta. Qui, alternandosi tra le camere da letto ed i salotti che contavano, conobbe molti personaggi illustri come Thomas Jefferson e Benjamin Franklin con il quale strinse una grande amicizia e condivise l’idea di poter esportare nel nuovo continente prodotti tipici toscani e piante, tra cui l’ulivo e la vite.
L’idea prese subito corpo e il 2 settembre 1773, insieme a dieci contadini provenienti dalla provincia di Lucca, un sarto piemontese, la vedova Maria Martin che più tardi diventerà sua moglie e il fidato amico Carlo Bellini, caricò su una nave trentatré tipi diversi di vite, piante di olivo e noce, ovuli di bachi da seta, scarpe, carta da musica ed una copia appena stampata del “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. Destinazione: la colonia della Virginia in nord America. Verrebbe quasi da dire che l’Italia, a bordo della Triumph, si apprestava ad aprire una delle prime linee commerciali di esportazioni che sarebbe durata fino ai nostri giorni. Dall’altra sponda dell’oceano lo aspettavano alcuni illustri cittadini tra cui George Washington e Thomas Jefferson, che lo invitò a trascorrere qualche giorno a casa sua nella sua tenuta di Monticello. Tra i due nacque subito un’amicizia che sarebbe durata almeno quarant’anni, fino cioè alla morte di Mazzei, suggellata dal dono del futuro presidente di 400 acri di terreno all’italiano che, dandogli il nome di tenuta del Colle, in richiamo a Colle Val d Elsa, usò subito per piantare quegli alberi che si era portato dietro all’inizio del viaggio. Un piccolo imprenditore agricolo, questo sarebbe voluto diventare, ma Mazzei, come ho già detto, era pieno di fervore illuminista e libertario, tanto che, dopo soli sei mesi, venne eletto rappresentante dell’Assemblea parrocchiale ed attraverso discorsi e pubblicazioni fu tra i primi a sostenere la necessità che le colonie si distaccassero dalla madre patria britannica e divenissero indipendenti. Avrebbe voluto partecipare più fattivamente alle aspirazioni rivoluzionarie ma fu Patrick Henry a convincerlo che le sue abilità letterarie e oratorie, sarebbero tornate più utili
Filippo Mazzei divenne quindi collaboratore della “Virginia Gazette”, per la quale scriveva sotto lo pseudonimo di “Furioso”, dopo aver fatto tradurre i suoi versi da Thomas Jefferson, il quale tra l’altro, parlava, leggeva e scriveva correntemente in italiano. E fu proprio Filippo Mazzei a fornire il concetto e la filosofia che Jefferson parafrasò in quel verso della Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America che ho citato all’inizio. E se la sua carriera da agricoltore volgeva al peggio, per tutta una serie di condizioni avverse, quella da politico e rivoluzionario procedeva a gonfie vele. Scrisse lettere a suoi amici influenti in Olanda, ottenendo supporto navale, in Spagna e in Francia, fondamentali per il futuro (e decisivo) aiuto alla causa rivoluzionaria. Jefferson e Madison gli diedero incarichi da agente segreto e lui riuscì ad ottenere prestiti, a contrabbandare armi e naturalmente ad ottenere utili informazioni politiche e militari che si rivelarono fondamentali per la nazione americana. Non si contano anche gli articoli, gli interventi politici, le connessioni commerciali che seppe fornire da tutta Europa, dove rimase fino al 1783, cioè fino a dopo la fine della guerra d’indipendenza americana. Molti furono gli attestati di stima da parte dei personaggi che determinarono quell’evento straordinario che fu il distacco definitivo dal regno d’Inghilterra, ma ci fu anche chi non lo apprezzò, come Franklin, ad esempio, che, disconoscendo il ruolo affidatogli da Jefferson e Madison, pensava che solo persone americane potevano rivestire tali ruoli. Questo atteggiamento naturalmente ferì Mazzei, che tuttavia non smise mai di amare quel paese lontano di cui, a buon ragione si sentiva in un certo modo di far parte. Ritornò in Virginia nel 1783 e ricevette l’incarico di amministratore della contea di Albermerle, si liberò della tenuta donandola alla figliastra Margherita Maria Martini che nel frattempo si era coniugata col francese Justin Pierre Plumard, conte di Rieux. Due anni dopo lasciò per sempre l’America dove rimase, invece, la moglie Maria che lì morì nel 1788. Un uomo del genere non sarebbe potuto davvero stare con le mani in mano e, tornando in Europa, si stabilì dapprima in Polonia, prendendo parte attiva alla vita politica di quel paese. Mantenne sempre i contatti con Thomas Jefferson che incontrò ancora una volta a Parigi durante una missione diplomatica. In Francia ritornò dopo la rivoluzione, entrando a far parte del direttorio, ma con l’avvento di Napoleone tornò a Pisa, sia per questioni climatiche, sia per la presenza a Livorno di due cugini più che benestanti. In Italia fu raggiunto dalla sua amante Joséphine Vuy, da lui chiamata Giuseppina, una giovane savoiarda con la quale egli aveva convissuto a Parigi, ma che morì poco tempo dopo essere giunta in Toscana tra atroci sofferenze causate da una grave malattia. A questo punto del racconto viene naturale chiedersi cosa c’entri la Lunigiana con le vicende di questo illustre italiano. Ebbene, durante gli anni della malattia, Giuseppina fu aiutata e curata da Antonina Antoni (forse Tonini secondo Wikipedia) nativa di Fivizzano, che fu indicata dalla Vuy stessa a diventare la seconda moglie di Mazzei. Così avvenne e la donna divenne la sua seconda consorte nel 1796, dando alla luce due anni dopo una bambina cui venne dato il nome di Elisabetta, la cui discendenza continua ancora oggi nella famiglia Marcuzzi. Le vicende politiche ed umane di Mazzei continuarono fino alla data della sua morte, avvenuta nel 1816, ma a me piace ricordare, tra le tante vicende, quella che lo vede destinatario di una richiesta da parte di Jefferson nel 1805, di commissionare al famoso scultore Canova la realizzazione del nuovo campidoglio a Washington. Forse quella richiesta andò oltre le capacità di Mazzei che, non riuscendo nell’impresa, gli inviò due scultori meno famosi. Mi piace anche immaginare che nella decisione di mandare i due artisti, possa aver avuto un ruolo decisionale, per gusti, visione artistica e prospettive domestiche anche la fivizzanese Antonina. Immaginare, usare la fantasia non costa nulla, in fondo in ogni casa che si rispetti c’è sempre ed è fondamentale, il tocco di una donna per cui che male c’è a pensare che al Campidoglio, nella capitale americana, ci sia il tocco di una donna lunigianese?