“Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente”
Indro Montanelli
Come ogni anno, all’avvicinarsi del 25 aprile, i paladini (a fasi alterne) della Costituzione spenderanno fiumi di parole su guerra e pace, partigiani, resistenza e antifascismo. Discorsi, a volte carichi di retorica e poco corrispondenti alla realtà dei fatti, finanche strumentali ad alimentare la sempre presente e presunta minaccia di fascismo (fenomeno peraltro morto e sepolto, come diceva Pasolinì). Una visione, quella di questi nobili alfieri della democrazia, volta a mantenere quei paradigmi che contraddistinguono la separazione tra buoni e cattivi. Spesso, paradossalmente muniti della sempreverde arte del trasformismo, a raccontarci la novella o addirittura a farci la morale, sono proprio i figli (a volte di sangue) di chi era fascista e/o repubblichino del giorno prima e di segno opposto il giorno dopo. Non che le colpe (ove riscontrate) dei padri (putativi o naturali) debbano ricadere sui figli, ma i figli abbiano almeno la decenza di essere intellettualmente onesti e di raccontare, se in grado di farlo, tutti i risvolti di un periodo storico lungo e complesso, e non solo quello che più gli fa comodo.
E allora: “Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti…” la frase sarcastica attribuita a Winston Churchill, starebbe dunque a significare che l’Italia del dopoguerra ha prodotto un esercito di voltagabbana. Dichiarazione eccessiva, ma in parte vera. Di certo, giusto è celebrare chi si è sacrificato per la libertà, che sia partigiano, intellettuale o politico, in questo caso consentitemi di dire: “facciamo di tutta l’erba un fascio”.
Come altrettanto giusto sarebbe onorare, nella misura adeguata, anche i primi resistenti, ovvero gli IMI (Internati Militari Italiani), i soldati italiani catturati dai tedeschi che, dopo la proclamazione dell’armistizio. l’8 settembre 1943, non vennero considerati prigionieri di guerra, ma deportati politici. Una condizione che non garantiva le tutele della Convenzione di Ginevra, e le conseguenze furono per loro drammatiche. A questi resistenti sarebbe bastato giurare fedeltà alla Repubblica di Salò e a Hitler, ma non lo fecero. Una scelta scomoda e coraggiosa. Tuttavia, le istituzioni, la politica e i media hanno sempre mostrato verso queste persone un profondo disinteresse. A tal proposito alcuni giorni fa un amico, storico e studioso della resistenza locale, mi ha informato che l’Archivio tedesco Bad Arolsen aveva, finalmente, digitalizzato i documenti dei prigionieri, militari e civili, della seconda guerra mondiale. Immediatamente, sono stato pervaso da un mix di gioia ed entusiasmo. E ho pensato che forse, con un po’ di fortuna, sarei riuscito a trovare informazioni riguardanti il periodo di detenzione di mio padre e di mio zio materno. Entrambi furono infatti, purtroppo, internati dai nazisti nei campi di concentramento. E così è stato. I fascicoli dei miei famigliari erano disponibili. Ecco la loro storia.
Mio padre, Giuseppe Micheloni nato a Carrara il 31/03/1924, arruolato in Marina, dopo l’armistizio nel 1943, non volle aderire alla Repubblica di Salò, per questo fu catturato dai nazisti e il 25 settembre del 1943 fu internato nel campo di Ratisbona, dove rimase alla chiusura, il 2 aprile del 1945. Dopo la guerra, come tanti italiani in cerca di lavoro, dovette emigrare in Australia dove trovò lavoro come taglialegna, per abbattere gli alberi di eucalipto, poi si trasferì in Belgio dove lavorò come minatore ed infine in Svizzera come cameriere in un albergo di una località sciistica. Nei primi anni sessanta fece ritorno in Italia e trovò impiego in un campeggio della Partaccia. Anni dopo ritornò in Germania per rintracciare i documenti che avrebbero potuto attestare il suo periodo di detenzione. Purtroppo la ricerca non ebbe l’esito sperato. Il campo era sparito e dei documenti non vi era traccia. Forse i tedeschi non erano ancora pronti a fare i conti con il loro passato. D’altro canto, anche per mio padre fu difficile, se non impossibile, ricostruire il trauma degli orrori del lager sotto forma di narrazione. Ricordo che politicamente simpatizzava per il partito comunista, anche se mio nonno era anarchico, la mia famiglia materna era invece repubblicana. Mio padre morì di cancro ai polmoni nel 1981, quando io avevo solo 14 anni, e, per quanto ne so, non raccontò mai a nessuno gli orrori da lui vissuti nel lager, neanche a mia madre. E se mio padre riuscì a scampare al campo di concentramento, non altrettanta fortuna ebbe mio zio, Gino Menconi nato a Carrara il 20 ottobre del 1920, che dopo essere miracolosamente sopravvissuto alla campagna di Russia, sfollato a Forno fu fatto prigioniero dai nazisti e deportato in Germania, in un campo di lavoro di Mittelbau-Dora, la fabbrica dei missili V2, a Nordhausen, dove il 4 aprile 1945, a pochi giorni dalla fine della guerra, morì sotto un bombardamento degli alleati. Un destino beffardo e crudele, il medesimo che toccò al marito di mia zia materna, anch’esso militare e caduto di guerra. Entrambe le spoglie dei due giovani combattenti non fecero mai ritorno in Italia.
Ma veniamo ai giorni nostri. Un nuovo conflitto mondiale: cui prodest? In una fase storica in cui la globalizzazione unipolare esportata dagli Usa nel mondo è messa in discussione dal modello multipolare dei paesi BRICS, ovvero Cina, Russia, India, Brasile, Sudafrica, nazioni che hanno, peraltro, iniziato un importante processo di de-dollarizzazione mondiale, si stanno prefigurando scenari apocalittici. Da troppo tempo il rallentamento dell’economia globale e l’insuccesso del modello di sviluppo dell’Unione Europea, unito al fallimento della politica di integrazione dell’immigrazione di massa dal Terzo Mondo, hanno messo in crisi le potenze occidentali. Nel vecchio continente l’eccessivo interventismo politico ed economico della Commissione UE verso alcuni settori (economia Green, settori militare e bancario, finanziamenti a cascata agli ex paesi dell’Europa dell’Est) ha prodotto risultati disastrosi.
In questo contesto l’egemonia del modello occidentale è giunto al capolinea e allora ecco che, come nel 1914 e nel 1939, in Europa rullano i tamburi di guerra. Palestina, Ucraina e anche l’Isis ritirata fuori dalla naftalina. È forse il preludio alla terza guerra mondiale?La storia si ripete, soffiano i venti di guerra e i pacifici appaiono, purtroppo, nuovamente impotenti. Ebbene, stando così le cose non ci rimane che sperare che il ricordo di morti e distruzione delle precedenti guerre mondiali sia da monito per difendere la pace e per fermare tutti i conflitti nel mondo.
di Cesare Micheloni