Quante volte stanchi dello stressante tran tran della vita quotidiana abbiamo detto: ora basta me ne vado a vivere su un’isola deserta e non voglio vedere più nessuno? Vivere in solitaria, lontani dalle mondanità e dalle tentazioni della società che ci circonda, un sogno da realizzare o un preciso obiettivo di vita? Storicamente, già nell’antichità, esistevano forme di eremitaggio, con punte di estremismi al limite della sopravvivenza umana, è il caso dell’asceta cristiano Simone, detto lo stilita, proprio perché per avvicinarsi di più a Dio, scelse di vivere per ben 37 anni in cima ad una colonna. Gli stiliti erano dei monaci anacoreti, così detti proprio perché si isolavano completamente dal mondo, rifugiandosi spesso in luoghi deserti e impervi, praticando un tipo di ascesi molto rigida e se alcuni preferivano le colonne altri si ritiravano su grandi massi oppure su degli alberi, prendendo il nome di dendriti. Nel famoso film di Mario Monicelli, Brancaleone alle crociate, un divertentissimo Gigi Proietti interpretò proprio il monaco stilita Colombino, incaricato di dirimere la disputa tra il papa Gregorio e l’antipapa Clemente. Un moderno asceta è il monaco Maxime Qavtaradze che da ben 26 anni vive in totale solitudine, in cima ad un gigantesco pinnacolo roccioso, alto più di 40 metri in Georgia, il Katskhi Pillar, sul quale troneggiano assisi una piccola chiesa e tre celle solitarie. L’unico modo per arrivare fin lassù è salire per una malferma scala in acciaio. Per fornirgli gli approvvigionamenti necessari al proprio sostentamento, gli occupanti del sottostante monastero usano un argano. Giunto a questa estrema decisone dopo aver passato un periodo in prigione, l’eremita, in un’intervista rilasciata a “thevintagenews.com” ha detto che il modo migliore per liberarsi dal male è stato salire fin lassù: “È qui, nel silenzio, che puoi sentire la presenza di Dio”.
Ma non sempre la religione o la ricerca dell’incontro con Dio sono i motivi per una scelta di vita così profonda, esistono anche storie di persone comuni che spinte da eventi che ne hanno stravolto il destino, decisero di isolarsi dal mondo. L’Australia di inizio ‘900 accolse migliaia di emigranti da tutto il mondo: Valerio Ricetti, classe 1898 fu uno di loro, in fuga da un’Italia prossima ad avventurarsi in quella tragedia immensa che fu la Prima Guerra mondiale. Era nato a Sondalo in provincia di Sondrio e nel 1914 sbarcò a Port Pirie e cominciò subito a lavorare in nelle miniere di Broken Hill. Una delusione amorosa ed alcune disavventure giudiziarie furono la causa di un suo girovagare che terminò in una zona chiamata “The cliffs” vicino alla città di Griffith. Apprezzando la presenza di numerosi alberi da frutto e di piccola selvaggina, decise di stabilirvisi e andò ad abitare in una grotta. Ricetti aveva imparato in Italia l’arte di costruire muretti a secco, quindi si fabbricò il suo Eden personale ed in totale solitudine, movimentò pietre, scavò nella roccia varie stanze, tra cui una cucina ed una cappella per pregare e sistemò un’area totale di ben 160 mila metri quadrati. Nel 1935 si ruppe una gamba, fu trovato per caso e portato dal dottor Burrell, del quale divenne buon amico e fu proprio grazie a quest’ultimo che la popolazione locale scoprì l’immane lavoro dell’emigrato italiano. Nel 1940 allo scoppio della seconda Guerra Mondiale fu internato per cinque mesi in un campo di prigionia, perché sospettato di essere una spia. Considerato un disadattato fu mandato in un manicomio, ma dopo sei mesi, grazie all’intervento di un altro italiano che se ne prese cura, fu rimandato nella zona di Griffith. Nel 1952 tornò in Italia per cercare di ricongiungersi con suo fratello ma morì pochi mesi dopo. Ciò che creò in 23 anni di vita solitaria è oggi riconosciuto e preservato col nome di “Hermit’s cave”, le grotte dell’eremita.
Un altro esempio di ritorno ad una vita isolata nel mezzo della natura selvaggia è quello di Richard Proenneke, un operaio specializzato in meccanica e carpenteria che, nel 1968, a cinquant’anni decise di vivere nelle foreste dell’Alaska, in prossimità dei Twin Lake in una baita da lui costruita. Dopo un periodo di sei mesi, al termine dei quali approfittò per far visita ai suoi parenti tornò nella sua casa di legno e visse per trent’anni in totale solitudine, nutrendosi di ciò che la natura gli forniva e procurandosi le poche cose provenienti dal mondo moderno, attraverso i voli di piccoli aerei locali. Su quell’esperienza furono fatti due documentari intitolati “Da solo nelle terre selvagge” montando i filmati da lui stesso registrati. Nel 1999, all’età di 83 anni, lasciò la baita per andare a vivere in California col fratello Raymond dove quattro anni più tardi morì. La casa è ancora oggi visibile all’interno del “Lake Clark National Park”.
Nel Mediterraneo orientale, all’interno dell’arcipelago di Kastellorizo, si trova l’isola deserta di Ro, nella quale, nel 1927, sbarcò Despina Achladiotu insieme al marito Kostas Achladiotis. L’isola, ampia solo un chilometro e 6oo metri quadrati era abitata da poche persone che, presto, se ne andarono, lasciando la coppia da sola. Nel 1929, un manipolo di soldati innalzò sull’isola una bandiera turca e Despina, sentendosi oltraggiata, con l’aiuto del marito la ammainò sostituendola con quella della Grecia che lei stessa aveva confezionato usando la biancheria di casa. Il marito, nel 1940, si ammalò. Despina chiese aiuto agli abitanti delle isole circostanti, ma la barca che venne in loro soccorso affondò e lei rimase da sola, in compagnia solo delle capre e delle galline grazie alle quali riuscì a sopravvivere. Anche dopo la dipartita di Kostas, ogni mattina la donna continuò a tipetere il rito dell’alza bandiera fino al 1982, anno della sua morte. Questo gesto di alto patriottismo le valse il soprannome di “la Signora di Ro”!
Eremiti, monaci, emarginati, patrioti, uomini in fuga dalla vita, questi sono solo alcuni esempi di persone che, per un motivo o per l’altro, hanno deciso di eclissarsi, rinchiudendosi in un mondo solitario. Non posso non citare, alla fine di questo breve articolo, la vera storia di Christopher McCandless raccontata nel film “Into the wild”: un ragazzo decide di cercare la propria felicità, allontanandosi dal caos della vita di città e si rifugia nelle selvagge foreste dell’Alaska, dove, al termine di mille prove fisiche e trascendenti, troverà la morte per assideramento. La ricerca di una spiritualità perduta, del contatto solitario tra uomo, natura e Dio che farà scrivere al protagonista su un taccuino, poco prima di morire, una frase che vale tutto il film: “La propria felicità va condivisa con gli altri”.
Cose da pazzi? Dipende dal punto di vista.