Koh Bok-im ha settant’anni suonati, ma vorrebbe lavorare fino quando ne avrà ottanta, se il fisico la sosterrà. E non lo dice tanto per dire. D’altra parte la longevità professionale è un tratto di famiglia, così come il suo mestiere, che si tramanda di generazione in generazione lungo una linea di successione esclusivamente femminile. Come la mamma e la nonna prima di lei, Koh è una haenyeo dell’isola Jeju, in Corea del Sud. Le haenyeo sono delle pescatrici subacquee che s’immergono senza bombole, armate di lunghi coltelli, piccole zappe e arpioni, alla ricerca di tutto ciò che di commestibile e commercializzabile, possono offrire loro i fondali marini. La loro quotidiana attività di pesca subacquea in apnea – riconosciuta Patrimonio Culturale dell’Umanità da parte dell’Unesco – è stata, per secoli, l’unica fonte di sostentamento degli abitanti dell’isola, tanto che le haenyeo sono diventate, nel tempo, un vero e proprio simbolo di Jeju e del paese. Una parte sostanziale del perché Koh vorrebbe continuare ad immergersi e pescare fino ad ottant’anni, sta proprio nell’orgoglio e nella poetica di appartenere a questa sorta di élite professionale di lavoratrici del mare. Ad ogni profondo respiro prima dell’immersione, è come se queste donne straordinarie si riempissero i polmoni, non solo di ossigeno, ma anche di tutte le storie delle decine di migliaia di haenyeo, che le hanno precedute, portandosi queste storie in fondo al mare, per trarne forza, protezione e monito. Ma aldilà dell’aspetto romantico, essere una haenyeo vuole dire fare un lavoro duro e pericoloso.
Il termine “haenyeo” si può tradurre con “donna del mare”, traslazione idiomatica imperfetta, ma estremamente pertinente. Per molti versi, l’immersione in apnea è un’esperienza catartica. La connessione che si crea con l’elemento naturale in cui ci si muove, è di tipo ancestrale. Per pochi minuti la nostra diversità e la nostra – supposta – superiorità di specie scompaiono, milioni di anni di evoluzione svaniscono, rendendoci esseri fragili, impacciati ed indifesi, ma allo stesso tempo intimamente in simbiosi con esso, in quanto potentissimo richiamo esperienziale della nostra pre-natalità. In questo senso, chi si immerge appartiene all’acqua, molto più di chi vola – in qualunque modo lo faccia – appartenga all’aria. Le haenyeo ricevono dal mare quello che i nostri limiti di esseri umani concedono loro. Senza bombole né strumenti sofisticati, fanno immersioni della durata di due o tre minuti per volta, per raccogliere molluschi, alghe e, più raramente, polpi o altri pesci che stanziano tra le rocce. Tornate in superficie, mettono al sicuro il pescato in una sorta di raccoglitore galleggiante, prendono fiato e tornano ad immergersi. Questo per sei-sette ore al giorno, tutti i giorni, anche quando il mare si arrabbia e si fa meno amichevole per le creature che non vi hanno cittadinanza di diritto. Il loro lavoro è gestito a livello locale, da una miriade di piccole cooperative che hanno sede nei villaggi costieri, e che decidono dove, cosa e quando pescare. A fine giornata, le haenyeo trattengono per sé ben poco di quello che raccolgono. La gran parte del pescato viene venduto.
È dal quinto secolo dopo Cristo che sull’isola si pratica la pesca subacquea, ma prima il lavoro era svolto dagli uomini. Nel seicento, però, a causa delle guerre e della pericolosità della pesca subacquea, che causava spesso la morte di chi la praticava, i villaggi dovettero affrontare una consistente penuria di uomini. Per mantenere le loro famiglie, furono le donne a prendere il loro posto, facilitate dal fatto anche che, al tempo, gli uomini che lavoravano dovevano pagare un tributo, mentre le donne no. Con gli anni, il peso economico e sociale delle haenyeo crebbe considerevolmente, fino a portare una sorta di emancipazione del ruolo della donna sull’isola. Per molte comunità il lavoro delle haenyeo era l’unico sostentamento. Questa importanza trasformò la rigida struttura sociale dei villaggi, facendole assumere una configurazione semi-matriarcale, in netta dissonanza con la tradizione del paese. Anche se la politica e l’amministrazione erano – e saranno ancora a lungo – un’esclusiva maschile, l’impatto delle haenyeo sui costumi locali, ha avuto il peso specifico di una piccola, grande rivoluzione. Le haenyeo, non solo hanno ribaltato i rapporti di forza in seno alla struttura sociale dei villaggi di Jeju, ma sono anche l’incarnazione del coraggio, dell’intraprendenza e dello spirito di tutte quelle popolazioni che hanno dovuto trarre risorse e sostentamento da territori prevalentemente ostili.
Sebbene il mestiere abbia perso gran parte della sua attrattiva per le nuove generazioni -dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi, le haenyeo sono passate da 20 mila a 2500, in maggior parte over 50 – una haenyeo è guardata sempre con rispetto e ammirazione, e per molti villaggi costieri, soprattutto quelli più piccoli, la pesca subacquea delle haenyeo rappresenta, ancora oggi, un’importante voce nell’economia della comunità in cui operano, e la ereditarietà al femminile persiste. La figlia minore di Koh e sua nuora sono anch’esse delle haenyeo. Le giovani haenyeo imparano a nuotare intorno agli otto anni, ma prima di immergersi in mare, devono frequentare scuole dedicate per diversi anni. Qui vengono allenate ad aumentare progressivamente le loro resistenza sott’acqua, viene insegnato loro a gestire tempi e profondità d’immersione, a conoscere ed interpretare le correnti, e soprattutto ad orientarsi, in immersioni che si spingono fino ai dieci metri di profondità. Una misura che sembra piccola, a parole, ma che nasconde mille pericoli. Perché sott’acqua può succedere di tutto, anche ad una haenyeo esperta. Si può svenire, ci si può tagliare o si può essere scagliate con violenza contro le rocce, si può perdere l’orientamento, o il senso del fondale, soprattutto quando il cielo è nuvoloso o il mare non è calmo. La morte è un evento raro, ma può succedere, ed è già successo in più di un’occasione. Per questo le haenyeo si immergono sempre in gruppo. Per aiutarsi a vicenda in caso di difficoltà. Oggi come ieri, onde evitare l’appannamento delle maschere, le sommozzatrici usano spalmare sul vetro temperato una sostanza vegetale, estratta da una pianta locale, l’artemisia. Mentre per immergersi si avvalgono di moderne tute, di pinne, e di pesi che aiutano la discesa. Ma ancora negli anni ’50, pinne, tute termiche in propilene e pesi, non facevano parte del loro equipaggiamento. Per immergersi le haenyeo indossavano casacche o costumi di cotone con un cappuccio, chiamato “kkaburi”; mentre i contenitori galleggianti non erano in plastica arancione fosforescente come adesso, bensì in cuoio o budello. La foto del 1955, in bianco e nero, di alcune di loro che, a riva, emergono parzialmente dall’acqua, in prossimità degli scogli, in quelle loro tute immacolate, per esaminare il pescato, trasmette tutta la magia e la tenerezza di un mondo che, ineluttabilmente, è destinato a scomparire.
Fonti: Internazionale, Newsletter “In Asia” – Wikipedia