Durante le escursioni sulle meravigliose Alpi Apuane, capita spesso di percorrere ardite vie di lizza, ormai abbandonate, sulle quali venivano calati, a forza di braccia, i grossi blocchi di prezioso marmo estratti da cave poste più in alto talvolta in posizioni difficilissime da raggiungere. Per secoli la vita dei cavatori deve essere stata un vero inferno: lavorare da “stelle a stelle”, per una misera paga, che permetteva, a malapena, il sostentamento della famiglia e rischiare giornalmente la vita, cosa che purtroppo accadeva spesso. L’avvento dei primi supporti meccanici permise di accelerare i processi di estrazione ma la vita dei cavatori, dei minatori, tecchiaioli, filisti, riquadratori e lizzatori restava sempre ugualmente infame, come in quell’infausta mattina del luglio 1911, quando dieci cavatori vennero travolti e sepolti da una frana di marmi caduta dal monte Betogli per il quale era stato coniato il triste proverbio “Se vuoi provare le pene dell’inferno lavora nei Betogli estate e inverno”.
Va da sé che le cose dovevano cambiare: piano piano, lo spirito libertario anarchico, cresciuto con il senso di solidarietà e condivisione che il duro lavoro comportava, fece breccia nella maggior parte dei lavoratori del marmo. Cominciarono, così, le prime lotte per ottenere condizioni di lavoro più umane, ma per lunghi anni, vuoi per la scarsa organizzazione, vuoi per lo strapotere dei “padroni”, i risultati furono praticamente nulli. Proprio nel settembre di quel terribile 1911, giunse a Carrara il sindacalista anarchico Alberto Meschi con l’incarico di segretario della locale Camera del lavoro per organizzare il movimento operaio.
Sotto la sua guida, il numero degli iscritti passò in pochi anni da 1355 a oltre 12 mila grazie al fatto che, con la sua forza di mediazione, riuscì a far convergere le istanze di anarchici, repubblicani e socialisti. Con questa forza sindacale così coesa, Meschi ingaggiò una lunga ed estenuante lotta che si concluse con una vittoria. Ancor oggi scolpita sul marmo del monumento a lui dedicato in Piazza Gramsci si legge: “Nessuno di noi dimentichi che questo marmo tribolato ha nome Liberta’ Fratellanza Fede di ALBERTO MESCHI anarchico sindacalista costruttore di migliori tempi, magnifico operaio fra operai reietti, cuore aperto alle ferite dell’uomo e della società, conquistò per cavatori e minatori la riduzione della giornata lavorativa. Sulle nostre terre e per i puri l’alba della sua onestà irradia da qui un sole che mai vedrà il tramonto”. L’orario di lavoro passò dalle dodici alle sei ore e mezza per i cavatori ed a sei ore per i minatori, compresi quelli delle cave di lignite della vicina Luni.
Alberto Meschi nasce nel 1879 a Borgo San Donnino, così allora si chiamava Fidenza, e, rimasto orfano di padre, inizia ben presto a lavorare come falegname e muratore a Genova e a La Spezia, dove comincia a distinguersi come organizzatore sindacale ed antimilitarista. Nel 1905 emigra in Argentina e diventa, in breve tempo, un valido attivista sindacale, collaborando con diversi giornali anarchici. Per questa sua attività ed in quanto anarchico, viene espulso quattro anni più tardi. Rientrato in Italia si dedica anima e corpo alla causa dei lavoratori di Carrara, finché nel 1914, richiamato alle armi, finisce prigioniero nei Carpazi. A fine guerra, eccolo di nuovo a Carrara a continuare le lotte sindacali fino all’avvento del fascismo. Dopo aver subito varie aggressioni da parte delle squadracce fasciste, riesce a rifugiarsi in Francia, dove continua la lotta sotto varie forme, fino al 1936 quando, allo scoppio della rivoluzione spagnola, si arruola con la Colonna Rosselli. Ferito rientra in Francia per poi tornare a combattere fino alla caduta della Repubblica. Esiliato, di nuovo, in territorio francese, finisce internato in campo di concentramento fino al 1943, anno del suo rientro a Carrara, e nel 1945 viene posto dal CLN alla guida della Camera del lavoro, incarico che ricopre fino al 1947. Nel contempo riprende la pubblicazione de “Il Cavatore” e partecipa alla rinascita del movimento anarchico in Italia, fino alla morte, nel 1957.
Nella mia famiglia erano quasi tutti cavatori o lizzatori: spiriti libertari, anarchici convinti, hanno da sempre mal tollerato soprusi e prepotenze per cui partecipavano abitualmente ad attività sindacali, agli scontri con i fascisti, ai quali immancabilmente seguiva un po’ di galera e alla lotta partigiana e così via. Nel dopoguerra, ogni giorno, una volta rientrati dal lavoro, frequentavano il circolo anarchico Germinal della FAI situato nel palazzo Politeama in Piazza Matteotti, un tempo Piazza Farini. A me capitava spesso di salire l’enorme scalone che portava al primo piano di quel palazzo per chiamare il babbo o per salutare gli zii (ci scappava sempre qualche caramella).
Ricordo ancora quel bellissimo grande e luminoso salone con il pavimento in parquet che scricchiolava sotto i piedi ed il grande pianoforte a coda davanti alle finestre prospicenti la piazza, la sala riunioni con le sue sedie bauhaus, che a me sembravano buffe, ed i ritratti di alcuni pensatori dell’anarchia: Bakunin, Malatesta, Ferrer, Gori e Cafiero. In questo contesto lo zio Guglielmo, un giorno, forse nel 1956, mi prese per mano e volle farmi conoscere una persona alla quale offrì, dandogli con rispetto del Voi, un bicchiere di vino.
Alberto Meschi era seduto ad un tavolo di fianco ad una porta che dava nel salone, vestito di nero con giacca e panciotto, una candida camicia e al collo il fiocco anarchico alla lavallière, una folta e candida capigliatura e la bocca incorniciata da due radi baffi. Quello che mi colpì fu la luce dei suoi occhi che emanava una gran calma e tanta dolcezza, facendo intravvedere in lui l’uomo buono. Lo zio mi presentò e lui mi sorrise; volle poi sapere dei miei studi ed alla fine della breve chiacchierata mi strinse la mano, poi con un buffetto sulla guancia mi raccomandò: “Fa sempre il tuo dovere, solo cosi avrai ragione nel difendere i tuoi diritti. Un giorno, quando tutti lo faranno, non ci sarà più bisogno di difenderli”.