Le tradizioni religiose, per il loro ruolo fondante all’interno dell’impalcatura ritualistica e dogmatica del culto in questione, sono tra i pochi comportamenti di gruppo – germinati in un passato più o meno lontano – capaci di una certa resilienza all’interno del vortice disgregatore dell’estremismo modernista, in nome del quale, ogni desiderio si evolve in diritto, e ogni posizione ad esso antagonista, anche la più pacata e ragionevole, viene etichettata in modo settario. I canti ecclesiastici appartengono di diritto a questo particolare sottoinsieme delle manifestazioni umane, che potremmo chiamare “Cose del passato che, per fortuna, non cambiano”. Oggi Gentes tratterà di un particolare tipo di canti ritualistici, gli “spirituals”, rendendo omaggio – nel suo piccolo – agli otto studenti di colore, cui si deve la loro pioneristica divulgazione nel mondo: i Fisk Jubilee Singers.
Gli studiosi statunitensi, che hanno la fortuna di poter concentrare le loro ricerche su un periodo storico piuttosto breve e recente, sono tutti concordi nell’affermare che gli anni immediatamente successivi alla fine della guerra civile, un periodo che va dal 1865 al 1877 e che viene chiamato la “Ricostruzione”, siano da considerare, in realtà, la fucina del segregazionismo e del razzismo, che caratterizzerà la società statunitense per altri cento anni. Il Ku Klux Klan, infatti, nacque in quegli anni. La rapida trasformazione degli stati del sud in entità politiche, sociali ed economiche più moderne, non avvenne. I problemi d’integrazione dei neri dopo l’emancipazione, se è possibile, peggiorarono. Ma è proprio durante questo periodo di promesse disattese e prodromi nefasti, che prese forma una delle caratteristiche identitarie della cultura statunitense con più alto tasso di positività, vale a dire l’influenza rivoluzionaria dei afroamericani sulla musica moderna. Questa scintilla, questo piccolo, ma importante, snodo storico, ha un tempo, un nome, e un luogo d’origine ben precisi.
Fondata a Nashville, Tennessee, dalla American Missionary Association, e sostenuta a livello locale dalla sparuta borghesia bianca progressista, la Fisk University nasce come college per aiutare i giovani liberti afroamericani a ricevere un’istruzione, e aiutarli nel processo di integrazione. Ma i fondi finiscono presto, e, nel 1871, la struttura si ritrova sull’orlo del fallimento. Il suo tesoriere, nonché direttore musicale, George Leonard White, un missionario bianco appassionato di musica, mette insieme una formazione di otto coristi e un pianista, cinque femmine e quattro maschi, tra i 14 e i vent’anni, quasi tutti nati in regime di schiavitù. I loro nomi erano: Ella Sheppard, Maggie Porter, Minnie Tate, Jennie Jackson, Eliza Walker Isaac Dickerson, Green Evans, Thomas Rutling, e Ben Holmes. Quest’ultimo, nel 1863, aveva letto il Proclama di Emancipazione di Lincoln a molti genitori dei suoi compagni di canto. L’idea è quella di organizzare una tournée per raccogliere i fondi necessari al proseguo delle attività scolastiche, vale a dire 20mila dollari, circa mezzo milione di dollari attuali. White riesce ad ottenere una serie di date che, a partire dal 6 ottobre 1871 e per i 18 mesi successivi, porteranno la formazione ad esibirsi in Ohio, Pennsylvania, New York, Connecticut, Rhode Island, New Jersey, Massachusetts, Maryland e Washington DC, lungo la Underground Railroad. Nessuno di loro aveva mai lasciato Nashville prima di allora.
All’inizio il loro repertorio prevede brani già noti al grande pubblico, per dimostrare agli spettatori bianchi e liberali degli stati del nord, che un coro di neri poteva rivaleggiare tranquillamente con formazioni simili formate da bianchi, che già si esibiscono regolarmente nei teatri del paese. Anche perché il connubio indissolubile tra musica moderna e afroamericanità, che oggi appare banale, al tempo non era ancora nato. Gli americani, anche i più progressisti, erano convinti che i neri appena usciti dalla schiavitù fossero in condizioni di oggettiva inferiorità morale, intellettuale e culturale. Al di fuori del lavoro nei campi e della loro ex condizione di schiavi, gli afroamericani venivano associati, al massimo, ai “minstrel shows”, spettacoli leggeri costruiti con un mix di sketch comici, balli e musica, interpretati il più delle volte da attori bianchi con il volto dipinto di nero.
Le prime tappe mettono a dura prova il morale, la compattezza e le motivazioni del gruppo. Gli spettacoli, con quella scaletta studiata per accondiscendere i gusti e le aspettative degli spettatori bianchi, non sembrano centrare l’obiettivo. La magia di quelle otto voci che si miscelano con la naturalezza del fiume che accoglie i suoi affluenti, non suscita alcun entusiasmo. La ferocia delle critiche della stampa e la scarsa affluenza di pubblico, fanno crollare gli incassi, e gli alberghi dove sono costretti ad alloggiare sono dei tuguri fatiscenti. Le denigrazioni e i comportamenti di stampo razzista accompagnano costantemente il gruppo, fuori e dentro i teatri. Ci vuole una svolta, altrimenti il tour non riuscirà mai a raccogliere i fondi necessari per salvare il college.
La prima arriva a Columbus. Dopo una nuova serata deludente, e una sistemazione particolarmente complessa ed umiliante, il gruppo si raccoglie in preghiera per interrogare Dio sull’opportunità di proseguire o meno il tour. White si unisce alle preghiere, ma nel frattempo pensa che trovare un nome potrebbe aiutare a catturare l’attenzione del pubblico. Dopo una notte di riflessioni propone ai ragazzi il nome di Jubilee Fisk Singers, in riferimento al Giubileo, l’anno in cui, secondo il libro del Levitico, gli schiavi vengono liberati. Il nesso sembra particolarmente calzante in questo caso, e il nome viene approvato. Ma è con la tappa ad Oberlin, nell’auditorium del prestigioso conservatorio, che i Jubilee cambiano per sempre la storia della musica. Si decide di abbandonare la scaletta originale e di introdurre un repertorio di brani che i bianchi non possono conoscere. Sono canzoni formate da un mix di canti da “lavoro” e di “dolore” che i genitori, ma anche alcuni di loro, avevano imparato in schiavitù, durante le infinite giornate nei campi di cotone, o la sera nelle baracche, prima di dormire. Quella sera il gruppo mette giù i pezzi, formalizzando armonizzazioni e schemi di accordi, che saranno alla base del blues, del rock ‘n roll, del rock e del pop. La decisione, però, è sofferta. Primo, perché quei testi e quelle melodie rappresentano un retaggio di un passato di orrore e sofferenza, vissuti in prima persona, che in pochi sono disposti ad estrarre nuovamente dal pozzo della memoria. Secondo, i canti sono considerati sacri, in quanto accompagnatori delle funzioni religiose. Il solo trasporre i testi su carta è considerato da molti una violazione del loro spirito. Per non parlare, poi, dell’eseguirli in un contesto del tutto estraneo a quello in cui erano stati creati, per il diletto di una platea rappresentante gli stessi oppressori che l’avevano causati: una vera e propria eresia. Del resto, questa lotta tra il tentativo di guadagnare legittimità sociale, facendo confluire alcuni tratti tipici della propria identità culturale, nel corpo degli usi e dei costumi di quella dominante, con il rischio di farli indebolire o trasfigurare, è un tratto tipico del lungo cammino sulla via dell’emancipazione, che tutti i gruppi oppressi o emarginati devono compiere. La scelta è azzeccata e il nuovo corso comincia a riscuotere il successo sperato. Nessuno aveva mai sentito brani del genere. Grida di dolore, accompagnati a versi di speranza, suggellati da cadenze ritmiche di due/tre accordi in tonalità maggiore, che danno vita a momenti di ascesi. Non è un caso che il repertorio del Jubilee sia la base per il corpo di canti utilizzato ancora oggi nelle chiese frequentate da afroamericani. Ed immancabili sono le tournée europee dei cori gospel moderni – a cappella o meno – che si tengono soprattutto durante il periodo natalizio.
La prima tournée si conclude nel 1872 e porta in dote quasi 100mila dollari, cinque volte tanto la cifra necessaria. La crescente fama li porta ad esibirsi molto presto al di là dell’Atlantico, difronte alla regina Vittoria e al kaiser Guglielmo. Mark Twain divenne un grande appassionato e sostenitore dei Jubilee, quello che oggi potremmo definire un fan o un groupie, assistendo a svariati concerti. Definì la loro musica “il fiore più perfetto dei tempi”. La prima, storica, formazione si scioglie nel 1878, a causa delle difficoltà e della durezza delle tournée. Nonostante una fama crescente, infatti, i patimenti e le umiliazioni tipiche dei primi tempi, sono ricorrenti e portano i Jubilee allo stremo. Negli anni, molte formazioni hanno continuato l’attività e molti direttori si sono avvicendati alla loro guida. Ma il peso specifico della sofferta scelta artistica del gruppo originario, ha la consistenza di un atto di eroismo vero e proprio. Grazie a quella scelta, e sulla scia di essa, nel corso di più di un secolo di esibizioni in tutto il paese, i Jubilee hanno contribuito in modo essenziale all’abbattimento delle barriere razziali negli Stati Uniti. Nel 2002 la Biblioteca del Congresso ha onorato la registrazione del brano “Swing low, sweet chariot”, eseguita nel 1909 dai Jubilee, inserendola nel Registro Nazionale delle Registrazioni, e nel 2008 è stato conferito al gruppo il massimo riconoscimento degli Stati Uniti per meriti artistici: la National Medal of Arts.
Come nel caso di Romanie Marie, anche questa storia non aspetta altro che essere trasportata su grande schermo. Alla regia vedrei bene il grande ritorno di Spike Lee, che ben saprebbe amalgamare la purezza catartica della musica, con l’orrore della schiavitù e i mille volti del razzismo. Per i dieci protagonisti, invece, non ci sarebbe altro che l’imbarazzo della scelta, vista l’offerta strabiliante di fenomeni artistici poliedrici che gli Stati Uniti possono offrire. Anzi, sono abbastanza sicuro che se una major offrisse il film a Spike Lee, tutti questi grandi artisti si metterebbero in fila per prendere parte alle riprese. Anche gratis.
Io lo farei di sicuro.
Fonti: The Atlantic | Stati Uniti – Wikipedia