Parte prima
“I rohingya sono brutti come orchi e non hanno niente a che fare con il Myanmar”. Queste parole sono una delle pochissime dichiarazioni che fa un chiaro riferimento alla minoranza musulmana di lingua bengali che vive nello stato di Rakhine, originariamente chiamato Arakan, nel nord ovest della Repubblica dell’Unione di Myanmar (ex Birmania), al confine col Bangladesh. Una zona che definire poverissima è un elegante eufemismo. Sono state rilasciate da un alto funzionario birmano nel 2009, mentre era in viaggio ad Hong Kong, probabilmente ai margini di una cena in cui si era un poco esagerato con l’alcol. Sono parole che, al di là della singolare, quanto discutibile metafora fiabesca, rispecchiano esattamente la strategia del paese nei confronti dei rohingya. Dal 1948, anno dell’indipendenza birmana dall’Inghilterra, quest’ultimi sono stati oggetto di una persecuzione feroce, perpetrata da ogni tipo di governo, più o meno democratico, che si è succeduto. Prevale la teoria che siano originari del Bangladesh e che si siano insediati in Birmania durante il periodo coloniale, per fornire manovalanza agli inglesi. Quindi, oggi, i rohingya non sono riconosciuti come minoranza dal governo birmano, bensì considerati immigrati irregolari bangladesi, e per questo sono odiati dalla maggioranza della popolazione, soprattutto quella buddista radicale. Quando non vengono tratti in arresto o picchiati dall’esercito, i rohingya sono fatti oggetto di pesanti discriminazioni. Nel 1982 sono stati privati della cittadinanza e della terra, quindi non possono lavorare, né muoversi liberamente, e non hanno accesso ai servizi di base. Per andare all’estero hanno bisogno di un permesso speciale, che, assai raramente, viene loro concesso. Quelli che, negli anni, non sono riusciti a fuggire dal paese, vivono in strutture che assomigliano molto a campi di concentramento. Senza terra da coltivare, senza la possibilità di provvedere alla propria sussistenza, senza cittadinanza e senza diritti, anche chi ha trovato rifugio in paesi vicini, vive in campi profughi, nel migliore dei casi, o impiegato come schiavo, soprattutto sulle barche da pesca, in quello peggiore. Il commercio di esseri umani incentrato su questa popolazione, è molto fiorente in tutta la zona del Golfo del Bengala e del Mare delle Andamane. Le stime, purtroppo in difetto, parlano di almeno 500 mila rohingya che vivono in condizioni di schiavitù. Questa persecuzione è di natura strettamente etnico-religiosa. A differenza di altre minoranze birmane, attive militarmente già negli anni ’80, i rohingya si sono armati relativamente tardi per difendere i loro diritti. Ed è stata una sorta di manna dal cielo per l’elite politico-militare birmana, quando un sedicente estremista rohingya nato a Karachi e cresciuto alla Mecca, tal Atah Ullah, ha fondato l’Esercito di Liberazione Rohingya dell’Arakan, avviando azioni armate nella zona. Cavalcando la dottrina imperante e la retorica della “guerra al terrore”, si è potuto presentare, così, i rohingya come un covo di estremisti musulmani legati ad Al Qaeda, e ottenere un’insperata parvenza di legalità per le operazioni di pulizia etnica in corso da anni nel Rakhine. Se fino ad allora, e nonostante la loro impotenza e povertà, i rohingya erano stati perseguitati in nome del nazionalismo birmano e di una cultura identitaria, comunque molto complessa, adesso ogni azione vessatoria, ogni violenza, poteva ammantarsi della sacralità della difesa della sicurezza dello stato. In una di queste “azioni”, il 23 ottobre del 2012, la polizia e gli estremisti buddisti della regione hanno unito le loro forze per radere al suolo il villaggio di Yan Thei, e, non sufficientemente sazi di tanto orrore, hanno ucciso 28 bambini, la metà dei quali minori di cinque anni, facendoli letteralmente a pezzi a colpi di macete.
Per chi non è birmano da generazioni, non c’è davvero modo di comprendere, nel profondo, a cosa si debbano tanto odio e disprezzo. La repulsione verso i rohingya è un sentimento radicato e generalizzato. Poche voci si sono levate in loro difesa, anche perché dissenso e libertà di espressione, in Birmania, non sono esattamente diritti civili che si possono esercitare con facilità, essendo il paese governato, quasi ininterrottamente, da giunte militari. Ma nel 2017, quello che verrà chiamato come “il genocidio dei rohingya”, conquista l’attenzione del mondo e dei massimi organismi internazionali a difesa dei diritti fondamentali dell’uomo. Come accade sovente in questi casi, l’orrore taciuto, dimenticato, o semplicemente trascurato, affiora in superficie a causa di eventi, la cui disumanità e ferocia, arriva a dei livelli, per noi occidentali, inconcepibili, ancor prima che inammissibili. In quell’anno, una trentina di assalti a delle stazioni di polizia locali e ad una base dell’esercito, messi in atto dai ribelli rohingya, portano ad una reazione senza precedenti, e ampiamente sproporzionata, da parte dei militari. Il Rakhine viene messo a ferro e fuoco, e le violenze di ogni genere si sprecano. Villaggi e coltivazioni vengono bruciati. L’unica alternativa alla morte o al carcere è fuggire. Nel giro di pochi giorni 650mila persone attraversano il confine con il Bangladesh e trovano rifugio nella regione di Cox’s Bazaar, dove vivono altre 400mila persone, nei campi profughi allestiti dalle autorità bangladesiane. Vi sono arrivate a più riprese, durante i decenni precedenti, perché la persecuzione ai danni dei rohingya non si è mai fermata.
continua…