Foto Archivio Michelino
Non l’ho mai conosciuto personalmente, a parte un breve incontro sul quale mi soffermerò, ma è indubbio che ai nostri occhi di ragazzi “Ginon” di Marina, così lo chiamavamo, era una sorta di mito. Alto, baffuto, con pochi capelli in capo, sempre abbronzato, giocava nella gloriosa squadra di pallacanestro degli Amatori Carrara che a quel tempo, parlo della prima metà degli anni cinquanta, militava, con ottimi risultati, in serie C. Le partite, quando si giocava in casa, venivano disputate la domenica mattina sul campo di asfalto posto nel cortile del palazzo ex GIL in via Marsala, l’attuale via Sarteschi, dove ora sorge la piscina comunale e noi ragazzi ci piazzavamo davanti al cancello in attesa dell’arrivo dei “nostri” cestisti. Inutile dire che il personaggio più atteso era Ginon, eroe di mille battaglie, grande trascinatore e, credetemi, in campo una vera iradiddio per le squadre avversarie. Arriva…non arriva, poi finalmente il rumore metallico della Lambretta che risaliva via Castelfidardo e la sua inconfondibile sagoma che si stagliava in lontananza.
Ci facevamo da parte e seguivamo con gli occhi il suo ingresso nel cortile, anche perché alla porta c’era da pagare il biglietto… ma con quali soldi? Tutti zitti: cominciava il primo tempo e noi più piccoli pendevamo dalle labbra degli improvvisati cronisti che, più grandicelli, fra i quali mio fratello, s’arrampicavano sul muro di cinta e ci descrivevano l’andamento della partita. Secondo tempo: apertura dei cancelli ed ingresso gratis e allora via tutti a bordo campo. E Ginon? Era lì, possente come una torre che sovrastava tutti…ma sì, anche quelli più alti di lui. Ed eccoli i suoi passaggi, le stoppate i canestri funambolici che ci mandavano in visibilio. Sì, certo, erano bravi anche gli altri…ma lui…
Battaglie epiche contro squadre come Shell-La Spezia, Torino e quegli spilungoni dei Leghorn Lions, una compagine di militari americani di Camp Derby che facevano vedere i sorci verdi tanto ci sapevano fare. Beh, non c’era verso, con Ginon il loro destino era segnato: a casa con le pive nel sacco.
Poi smise di giocare ed il suo ricordo pian piano si affievolì. Noi continuavamo a crescere ed a muovere i primi passi fuori dal nostro quartiere. Arrivò così anche la prima estate in cui si iniziò ad andare al mare senza la tutela dei genitori. L’età forse era poca, ma eravamo ragazzi svegli ed in grado di cavarcela, quasi sempre. Erano le ultime corse con il tram che di lì a poco, nel 1955, sarebbe stato sostituito da moderni filobus. I primi tuffi dagli scogli del molo di ponente, dove, poi, installarono quel baldacchino inutile dell’idrovora, i primi sacchetti di muscoli e le prime imprudenze.
Un giorno, davanti al bagno “Le Palme”, tuffo generale di tutta la compagnia, in un mare neanche tanto mosso, per fare qualche capriola in mezzo ai cavalloni. Quattro bracciate ed in men che non si dica mi ritrovai in una buca con una discreta corrente di risacca che mi spingeva al largo. Mio fratello, miglior nuotatore, fiutato il pericolo, mi si era avvicinato e mentre mi incoraggiava a resistere, cercava, con scarsi risultati, di spingermi fuori dalla corrente. La situazione si stava facendo difficile, anche perché di gridare aiuto non se ne parlava proprio: immaginate che vergogna! Però le forze cominciavano a venir meno ad entrambi. Ed ecco il miracolo: la mano che ti prende, ti solleva, ti trasporta per qualche metro fin dove tocchi in perfetta sicurezza e Ginon che ti dice: “Era un po’ che ti tenevo d’occhio, sembravi un gatto di piombo; ora va a farti un bel bagno con i tuoi amici e cerca di stare più attento.” E mentre si allontana lasciandomi a bocca aperta dallo stupore si volta ancora un attimo e “ Ci vai ancora a vedere gli Amatori?”.