Era il 1968. Me lo ricordo bene perché in tivù era in programmazione la terza puntata de “La freccia nera”. Io avrei voluto vederlo, ma questo avrebbe significato contravvenire alla consuetudine di andare a letto presto, soprattutto la sera del 5 gennaio. Ricordo ancora l’aria solenne con cui i miei genitori mi annunciarono che per quell’anno avrebbero fatto uno strappo alle regole, o meglio, avrebbero pregato la Befana di passare più tardi da casa nostra. “È un caso speciale”, sentii dire a mio padre che bofonchiava nella cornetta, “Signora Befana, potrebbe fare un’eccezione? È possibile?” Attendevo nervosa la risposta. Avevo cinque anni, ma ho ancora impressa nella mente l’immagine di mio padre mentre riagganciava la cornetta del telefono grigio appeso nel corridoio. Mi disse: “Sei fortunata. Lei ha capito”.
Lasciammo del cibo, mi pare del latte e dei biscotti, mentre mia madre, come ogni anno a venire (finché io ho creduto alla Befana), mi ripeteva: “Noi sulla mensola del caminetto le lasciavamo il vinsanto e anche del pane inzuccherato”. E io sorridevo dentro di me, perché pensavo che la vecchietta avrebbe mangiato più volentieri i biscotti. Quello fu il vero regalo della Befana: poter vedere la fuga del giovane orfano Dick dal malvagio Sir Daniel, che solo successivamente ho realizzato essere un bravissimo Arnoldo Foà. Amavo molto Joan, una ragazzina con i capelli cortissimi e una frangetta ribelle, interpretata da Loretta Goggi, che allora non aveva nemmeno diciotto anni.
Dei doni ricevuti ricordo, tra i più consueti e spartani sacchetti di iuta, l’eleganza di una calza ornata di tulle rosa confetto e nero che sbrilluccicava e che trasformai in seguito in un vestito da sera per la Barbie e il sapore delle pastiglie di cioccolata al latte, Droste, lucide e scioglievoli in bocca in contrasto con la ruvidità del carbone di zucchero, inscalfibile minaccia per i denti. Rivedo i lingottini della Perugina, dorati e ammiccanti e le “ginevrine”, quelle gocce di zucchero piatte e colorate, che io mangiavo in ordine di tinta, dalle più vivaci alle più spente. Rammento un lumino brutto a forma di cane che mi aiutò ad affrontare la paura del buio, prima di addormentarmi, ma che forse mi ha lasciato una vaga antipatia per i mastini napoletani, una cassettina degli attrezzi e poi i regali aziendali originali e costosissimi che altrimenti non avrei potuto ricevere, ma che mio padre poteva scegliere in un catalogo dedicato. Indimenticabili la camera regale per le Barbie, in tinta carta da zucchero, e la lavastoviglie di plastica bianca e azzurrina che davvero lavava i piattini e i bicchierini con acqua e sapone. Accompagnati da un ronzio lieve, gli brontolavano dentro, con un meccanismo che a me parve magìa.