seconda e ultima parte
immagini tratte dal volume “Gaiole in Chianti, retrospettiva di un territorio”
Giorgio Pagni, memoria storica del Chianti, riprende il racconto sulla vita e sugli amori chiantigiani del passato. Prosegue la sua narrazione sempre con il tempo presente: questo mi aiuta a restare calata nell’atmosfera di quel periodo: “Più avanti, attorno ai diciotto-diciannove anni le ragazze trovano il fidanzato, il primo fidanzato vero e proprio, allora le fughe incantate fra le ginestre e gli olivi, fatte col pretesto della funzione serale in chiesa, ricominciano. Da una mia ricerca storica ho trovato una scanzonata statistica di un intelligente contadino: le ragazze che giungono al matrimonio senza ignorare più nulla dell’amore son all’ottantacinque per cento, quelle che devono affrettare le nozze sono sei su dieci. Il pregiudizio sulle ragazze non più intatte qui non si può dire sia superato, anzi, non è proprio mai esistito. A uno che si lamentava dopo il matrimonio che la sposa non era come aveva creduto, suo padre rispose: i’ che tu pensavi che la tu’ mamma la lo fosse?
Una volta i contadini si sposavano giovani e andavano all’altare appena finita la ferma (il servizio militare, n.d.r.), oggi vogliono godersi il più possibile la libertà e non si sposano prima dei trent’anni, e anche le ragazze si sposano abbastanza ‘stagionate’. Il fidanzamento, al contrario, avviene presto: appena la ragazza si accorge di aver parlato abbastanza sui poggi fra le ginestre, mette il pretendente con le spalle al muro: ‘i mia’ non vogliono che faccia all’amore fuori, se intendi fidanzarti sul serio vieni a casa. Il giovanotto di solito inghiotte il rospo e, la domenica successiva, si tira a lustro per presentarsi al futuro suocero e dichiara: “Da qualche tempo giro intorno alla vostra figliola, se vi conviene, mi fidanzo con lei”. La risposta, nove su dieci, è affermativa, per non dire entusiasta: il suocero versa un bicchierino di vinsanto e chiede al genero se si degna di restare a cena a mangiare un boccone. Ecco, a quel punto il contratto è concluso. Intanto la ragazza ha già cominciato l’opera per ingraziarsi la suocera. Va spesso a farle visita, le dà una mano a ‘governare’ i polli, a lustrare le pentole, e insieme a lei svolge altre mansioni. È disinteressato questo aiuto? Non sempre, è una maniera come un’altra per studiarsi a vicenda, dato che, dopo il matrimonio, la giovane sposa starà più con la suocera che con il marito. E il gran giorno arriva. Ho trovato in uno scritto un’affermazione di un contadino di Castellina: una volta le spose andavano all’altare con un tailleur rosa o grigio, che poi sarebbe servito anche per il viaggio di nozze, oggi vanno all’altare vestite di bianco e con certi strascichi! E poi vengono gettati, sul sagrato della chiesa, chili di confetti e i ragazzini ci si lanciano sopra come galline affamate. Per non parlare del banchetto nuziale: i coperti a tavola non sono meno di trenta, si comincia a cucinare il pranzo tre giorni prima, si tira il collo a eserciti di pollastre e galletti e a preparare, fin dal giorno prima, marmitte di brodo e stidionate di arrosto. Per finire una torta a sei piani farcita di crema. E per chi non riesce a trovare moglie, o marito? C’è bisogno del ‘pateracchio’! E qui entra in gioco il ‘treccolone’.”
Mai sentito questo nome, dico a Giorgio, lui pare aspettarsi questa mia esternazione, fa un sorriso e riprende a parlare, ma questa volta racconta usando il passato, quasi volesse darmi la misura di quanto le cose siano cambiate da quei tempi. “Il treccolone era un uomo che andava per i casolari del Chianti a comprare uova e conigli: questo gli dava modo di conoscere giovanotti e ragazze da marito che erano disponibili nella zona. Parlava prima con lei, poi con lui: ci sarebbe un’occasione per te che non mi lascerei sfuggire. E così riusciva a combinare il pateracchio, cioè l’accordo matrimoniale, ai cosiddetti ‘diaccioli’, cioè i giovanotti timidi. Aiutava anche a risistemare qualche giovane vedova o vedovo con prole. Quando il pateracchio andava a buon fine in cambio aveva diritto al posto d’onore al banchetto nuziale.” Giorgio sorride, soddisfatto della mia espressione divertita. Riacciuffa la mia attenzione ancora una volta con gli indici rivolti verso l’alto.
“Ma questi giovani dove s’incontravano?” gli domando. Giorgio inarca le ciglia con fare interrogativo, poggia di nuovo i palmi sulle gambe e riprende tornando in quell’atmosfera là. “Molti s’incontrano nelle salette buie delle trattorie o dei bar, un po’ con la scusa di guardare la televisione, e bevono la spuma, non il vino. Altri s’incontrano ai balli di carnevale, o nella strada per andare da casa alla chiesa, o nella piazza del paese appena sciolte le fila della processione.
Ecco, per la processione le ragazze indossano i vestiti migliori fatti fare dalla sarta, quelli che usano tutti i giorni, invece, li fanno da sé. O senti questa… se è piovuto si infilano ai piedi scarpe da montanare, ma si portano sottobraccio quello col tacco a spillo da mettere cento metri prima di entrare in paese dove la strada è asfaltata. Se ci riescono il giorno prima vanno dal parrucchiere. La processione è, per loro, una specie di passerella, quasi una sfilata, un modo per mettersi in mostra e farsi notare dai giovanotti. E, anche se da queste parti son tutti comunisti, si sposano tutti in chiesa e tutti battezzano i propri figli. A Radda il sindaco non ricorda di aver celebrato un matrimonio civile dal dopoguerra. A Castellina ne è stato celebrato uno nel ‘58, il resto dei matrimoni tutti celebrati in chiesa. L’infedeltà coniugale viene sopportata da entrambe le parti: di corna ne crescono tante, ma non per questo i mariti traditi danno pugnalate, o le mogli vanno a mettere in piazza i loro dispiaceri. Quattro berci, due paia di schiaffi e tutto torna a posto, tanto quello che è stato è stato, e addietro un si torna, il toscano è sempre realista! La storia del Chianti e delle sue genti è anche questa: un mondo di tradizioni e di cultura scomparsa così velocemente quasi non fosse esistita, ma quando se ne parla riesce ancora a dare un po’ di nostalgia.” Giorgio ha terminato il suo narrare, non so perché, ma i miei occhi sono lucidi, forse perché questi racconti erano quelli che mi faceva la mia nonna, forse perché Giorgio Galantino Pagni è un mio parente alla lontana e ogni volta mi diverto a farmi raccontare quale ramo della mia famiglia di parte materna ci leghi, o sarà per gratitudine verso chi ancora oggi racconta il passato al presente rendendolo vivo, regalandoci ogni volta un pezzo di storia: un tesoro che appartiene a tutti noi.