foto di Giovanni Viaggi
Diario, luglio 1996
Uno dei posti da visitare per chi va a La Paz è, senz’altro, il sito archeologico di Tiwanacu, in inglese o Tihauanaco in lingua aymara. Sono ormai alle battute finale del mio soggiorno a La Paz nel 1996 e l’occasione per visitare questo sito non posso certo farmela scappare. Con un paio di colleghi decidiamo di andare e, dopo la solita lunga contrattazione con il nostro tassista, si parte. Prendiamo la trafficatissima autopista che da La Paz porta a El Alto (oggi grazie alla costruzione della Mi Teleferica che congiunge le due località tale fenomeno si è notevolmente ridotto) e quindi procediamo verso Tiwanacu che dista una settantina di chilometri ad ovest nelle vicinanze del lago Titicaca.
Il traffico va, via via scemando, fino a diventare quasi inesistente e, lungo la strada, un collega, appassionato di fotografia, chiede al tassista di fermare la macchina perché ha notato una contadina lavorare nei campi adiacenti e vorrebbe farle alcune foto. Prima che il tassista possa spiegare che non è il caso, il collega è già partito; salvo rientrare in precipitosa fuga perché fatto oggetto di una fitta sassaiola da parte di un uomo, probabilmente il marito, che lavorava nelle vicinanze. Ci viene quindi spiegato che le genti dell’altopiano credono che, fotografando le persone, si possa rubare la loro anima per cui la reazione dell’uomo è il minimo che ci si poteva aspettare. Staremo più accorti. Giungiamo finalmente al sito archeologico: è una giornata ventosa e senza nuvole ed il cielo, qui a 3840 metri di quota è di un blu fantastico. Appena scesi dalla macchina veniamo attorniati da un nugolo di bambini che ci offrono ogni sorta di oggetti e souvenir. Non sono però insistenti, offrono solamente la loro merce. Chiediamo di lasciarci prima visitare il sito, promettendo che al ritorno avrebbero fatto buoni affari; si ritirano in buon ordine, ma abbiamo la certezza che saranno li ad aspettarci.
Le prime notizie di Tihauanaco risalgono al 200 a.C., quando sorse un piccolo villaggio agricolo che, pian piano, si espanse acquisendo sempre maggior importanza, fino a diventare un vero e proprio stato circa cinquecento anni più tardi. Dopo altri quattrocento anni il villaggio era diventato una fiorente città che estendeva la sua importanza culturale e religiosa in una vasta area che comprendeva parte dell’attuale Bolivia, del Perù e del Cile settentrionale.
Nel periodo di massimo splendore, la città arrivò ad avere circa 40 mila abitanti, poi, dopo l’anno Mille d.C. iniziò una lenta, ma costante, decadenza. Si dice che, probabilmente, fu a causa di una lunga siccità che rese inospitale il luogo: iniziarono i saccheggi e già appena dopo un paio di secoli la città, assieme alla sua cultura, non esisteva più.
Quando gli Inca si impossessarono del territorio trovarono ormai solo rovine. Di Tihauanaco e del suo popolo non si ebbe più memoria fino al 1549 quando fu riscoperta dal conquistador spagnolo Pedro Cieza de Leon. Seguirono, tuttavia, altri lunghi anni di oblio, finchè, all’inizio del XX° secolo cominciarono gli scavi che, a più riprese, riportarono alla luce parte della città. A tutt’oggi si stima che sia stato scoperto solo il 50 per cento dell’intero comprensorio.
Ciò appare subito evidente, visitando la Piramide di Akapana, di cui appare solo una parte, in quanto il resto è ancora completamente sommerso di terra. L’aspetto curioso di questo sito è la presenza di un forte campo magnetico alla sua sommità le cui origini sono tuttora sconosciute.
Più avanti ci appare la struttura di Kalasasaia, una cinta muraria rettangolare di 130 per 120 mstri, all’interno della quale si accede tramite una scalinata costituita da un unico blocco di pietra. Le mura sono possenti e formate da blocchi di varie dimensioni ma tutti perfettamente squadrati ad eccezione di alcuni pilastri informi il cui peso è di varie tonnellate. Kalasasaya, che in lingua aymara significa pietre verticali: doveva essere un centro astronomico che permetteva di misurare solstizi ed equinozi. Al suo interno si può ammirare la Puerta del Sol che costituisce senz’altro il monumento più noto dell’intero complesso. Venne scolpita in un unico blocco di andesite ed è alta 2,8 metri e larga 3,8. Sulla sommità si possono vedere varie figure scolpite su entrambi i lati del bassorilievo centrale del dio Thunupa.
Essa deve il suo nome al fatto che in primavera, posizionandosi davanti, si vede il sole sorgere esattamente nella sua metà. All’interno del sito campeggia il monolito di Ponce, dal nome dell’archeologo che lo riportò alla luce nel 1964, alto 3,5 metri, che rappresenta una figura umana. Attorno figurano altri monoliti più piccoli e l’intero sito è cosparso di blocchi il cui peso arriva alle 25 tonnellate.
Ancora oggi resta un mistero come, con i mezzi di allora, siano riusciti a trasportare fin lì, blocchi di tale grandezza dalle cave che si trovano a quaranta chilometri di distanza. Non si sa in futuro quali bellezze potranno essere riportate alla luce, ma già quelle che ci sono valgono senz’altro la pena di un viaggio.
Torniamo alla macchina dove, per incanto, riappare il nugolo di ragazzi con i loro souvenir; ne acquistiamo abbastanza da farli contenti. Mentre si allontanano felici mi si avvicina un piccoletto, forse di quattro anni, che si era tenuto in disparte e timidamente mi offre un “foxile”, evidentemente falso, ma come resistere allo sguardo di quel bambino che spera anch’egli di fare il suo piccolo affare? Tre bolivianos, moneta locale equivalente circa a mille lire, e, ripagato da un sorriso che illumina due grandi occhi neri, sono il nuovo proprietario del “foxile”.
Fra due giorni tornerò a casa, sicuramente arricchito dalla conoscenza di una terra unica e di gente buona e sorridente, dove anche i bambini, che di sera per strada ti chiedono una moneta, se non dai loro nulla ti guardano e ti dicono: sarà per un’altra volta. Ora sono seduto sull’aereo all’aeroporto internazionale di El Alto, ma non si parte. La ragione – ci viene spiegato – è dovuta al fatto che, essendo l’aereo al completo, è molto pesante e poiché manca il vento adatto il decollo potrebbe essere problematico a causa dell’aria rarefatta. Aspettiamo fiduciosi anche se con una certa apprensione. Finalmente arriva il vento e si parte. Decollo, virata a sinistra, che permette un ultimo sguardo al monte Illimani e, dopo pochi minuti, posso dare un saluto al lago Titicaca che sfila sotto i miei occhi. Un breve scalo a Lima, cambio di aereo e, dopo un ultimo scalo tecnico a Caracas un bel salto con destinazione Roma, dove arrivo il mattino seguente. Qui trovo il volo per Pisa cancellato e la ferrovia tirrenica spazzata via in Versilia a causa delle esondazioni provocate dell’alluvione del 19 Giugno.
Nonostante ciò, verso sera, riesco ad arrivare finalmente a casa. Con questo terzo racconto si chiude la mia esperienza andina; sono passati tre mesi durante i quali, per guadagnare tempo, abbiamo spesso saltato i pasti sostituendoli con il benedetto “mate de coca” che ci dava l’energia per portare avanti il nostro progetto nei tempi previsti.Da domani in Bolivia comincerà l’installazione di cinquemila telefoni pubblici nelle città e nelle lande più desolate, dall’Amazzonia all’altopiano della Cordigliera; uno di questi andrà a sostituire il falò dell’isola di Kalahuta sul lago Titicaca.