Il primo passo indietro, doveroso, lo facciamo tornando al 13 settembre del 2022, quando la polizia religiosa di Teheran arresta una ragazza kurda che non indossa correttamente lo hijab, il velo che copre i capelli delle donne, obbligatorio in Iran dal compimento del settimo anno in poi. Dopo l’arresto la ragazza viene ricoverata in ospedale, dove muore pochi giorni dopo, il 16 settembre. Al suo funerale le donne si tolgono tutte il velo, al grido “Donna, vita, libertà”, uno slogan usato dalle donne kurde. Le immagini fanno il giro del mondo e innescano un movimento di protesta popolare trasversale, quale non si vedeva dai tempi della rivoluzione. Le manifestazioni sono andate avanti per mesi e la risposta del regime è stata tremenda. Nel macabro conteggio di morti, feriti, arrestati, torturati e condannati, a morte o a pene severissime, non c’è niente di ufficiale, tutto è incerto. Siamo abbastanza sicuri, invece, che Mahsa Jina Amini – questo era il suo nome – non avrebbe mai voluto niente del genere. Era venuta a Teheran in visita, come migliaia di persone fanno ogni giorno. Dopo qualche settimana, avrebbe dovuto cominciare l’università a Urmia, nel Kurdistan iraniano, a duecento chilometri da Saqquez, dove era nata. Era partita per la grande capitale con il futuro in tasca, ed è tornata nella sua terra dentro ad una bara, martire involontaria di un giogo che affligge le donne islamiche da decenni, ma le cui radici svelano interessanti sorprese.
Il secondo passo indietro ci porta nel 1921. In quell’anno cruciale, un colpo di stato capeggiato dal colonnello Reza Khan pose fine al dominio della famiglia Qajar, che aveva regnato in Persia (il futuro Iran) dal 1794. Dopo cinque anni il re venne formalmente deposto e Reza Khan diventò ufficialmente scià. Nello spazio di soli quindici anni, dal 1926 al 1941, quando salì al trono il figlio di Reza, Mohammad Reza Pahlavi, Reza impose al paese una profondo cambiamento in senso progressista ed anticlericale, in stridente e paradossale contrapposizione con tutto ciò che oggi caratterizza l’Iran, e la questione del velo. Agli inizi del secolo, i costumi occidentali e le incredibili libertà – agli occhi delle popolazioni musulmane, naturalmente – di cui godevano le donne, cominciavano a far breccia nell’immaginario collettivo, attraverso i racconti di chi studiava all’estero, o degli uomini di affari di ritorno dai loro viaggi, e ad influenzare i regnanti dalla mentalità più aperta.
Il re dell’Afghanistan, per esempio, aveva vietato il matrimonio combinato, la poligamia e promosso l’istruzione femminile. Inoltre aveva permesso alla moglie Soraya di presentarsi in pubblico – durante un viaggio in Europa e anche durante la loro visita a Teheran – clamorosamente senza hijab, suscitando un grande scalpore popolare e lo sdegno del clero. Ma il riferimento di Reza era Kemal Atatürk, il padre dell’odierna Turchia, di cui ammirava lo spirito riformatore, ma anche il profondo nazionalismo. La prima mossa di Reza atta a decostruire la società iraniana, in nome dell’abbandono di pratiche ritenute troppo legate a tradizioni ritenute ormai obsolete, fu l’emanazione di un decreto che imponeva agli uomini di sostituire fez, tarbousch e turbanti, con cappelli in stile europeo. Ma è con la legge del “kashf-e hijab”, vale a dire dello “svelamento”, adottata già nel 1935, ma entrata in vigore ufficialmente l’8 gennaio 1936, che si compì la trasformazione più importante. Con questa legge, nota anche come “legge di liberazione delle donne iraniane”, il velo in pubblico divenne proibito. La legge venne vissuta come un vero e proprio affronto e lo sdegno del mondo religioso si trasformò rabbia. Il 13 luglio del 1935 migliaia di fedeli si riunirono presso la moschea di Goharshad per protestare contro il decreto. Ma la tensione era molto alta e l’esercito sparò, uccidendo un numero imprecisato di persone. Per le strade il controllo non era meno ferreo di quello che è in vigore adesso, solo che allora si fermavano le donne che portavano il velo, e le si obbligava a toglierlo. Esattamente il contrario di quanto avviene oggi.
Nel 1941 Mohammad Reza Pahlavi salì al trono e il divieto di indossare il velo fu revocato. Negli anni, però, il regno del nuovo scià si fece sempre più autoritario, sfarzoso e oltraggioso nei confronti delle tradizioni religiose. Il malcontento aumentava e il movimento che propugnava l’instaurazione di uno stato islamico acquistava sempre più forza destabilizzante, facendosi inviso agli apparati regnanti. Il leader del movimento, Khomeini, era stato espulso nel 1964, ma il fermento rivoluzionario pervadeva il paese, al punto che molte donne indossavano volontariamente lo chador, il velo che copre tutto il corpo. Durante questa fase, la scelta di indossare anche solo l’innocuo hijab poteva essere pericolosa, in quanto esponeva le donne al sospetto di appartenere al movimento islamico o di esserne in qualche modo sostenitrici. Le manifestazioni di protesta contro lo scià si susseguivano e, alla fine, Pahlavi e la sua famiglia lasciarono il paese. Khomeini rientrò in Iran, celebrato come un salvatore. L’hijab tornò ad essere obbligatorio poche settimane dopo, perché nell’Iran immaginato dall’ayatollah “…le donne islamiche devono uscire con l’hijab. Non devono truccarsi. Possono lavorare, ma devono portare il velo islamico”. L’8 marzo, due giorni dopo questo discorso di Khomeini agli alunni di una scuola religiosa, alcune manifestanti scesero in strada per protestare contro l’imposizione del velo, ma furono oggetto di una violenta sassaiola da parte dei militanti islamici e, incredibilmente, di donne con lo chador, simbolo – insieme all’hijab – della purezza dell’Islam e del nuovo sistema politico economico. La storia recente venne riscritta. La strage della moschea di Goharshad è diventato un caposaldo della propaganda islamica. Il giorno della strage, il 13 luglio, è stato proclamato “giorno dell’hijab e del pudore”, e i fedeli caduti sono stati definiti martiri della causa islamica.
In poco meno di cento anni, l’hijab è passato da retaggio di una tradizione da superare, a pilastro della della società islamica. In entrambi i casi, questo ha provocato morte e sofferenza. Quale battaglia è più vana di quella che non può avere vincitori?
Fonti: Le Monde, Francia (tradotto e pubblicato in Italia da Internazionale) – Wikipedia