terza e ultima parte
Claudio Bonci, la mia guida nella storia del Chianti, e io proseguiamo la camminata all’interno delle mura del castello di Brolio e lui riprende a parlare del suo toponimo. “Il nome deriva dal termine celtico gallico brogilo, e ci riporta al periodo anteriore all’anno mille quando si designava per broilo o brolio una tenuta boschiva con un recinto al cui interno vi era il castello dell’abitazione del signore. Questo luogo è stato una riserva di caccia della famiglia Berardenga, di origine salica, ovvero dei Franchi Sali, popolo di origine germanica.
Una catena che delimita la proprietà privata, mi incuriosisce, mi affaccio tanto quanto mi è possibile. “Pare che siano 365 stanze”, dice Claudio. Come i giorni dell’anno! esclamo. “In una delle innumerevoli volte in cui sono stato qui, anni fa – continua Claudio – ci fu una guida che raccontò che le stanze del castello, ristrutturato dal barone Bettino Ricasoli, siano esattamente 365, lo stesso numero di stanze che ci sono nel castello di Sammezzano, quello vicino all’Incisa, però, in quest’ultimo caso il numero delle stanze è sicuro, mentre in questo caso non c’è la certezza, certo è che sono un po’ meno di quattrocento. Una di queste fu arredata appositamente per il re Vittorio Emanuele II.
Dunque: era in programma l’arrivo del re per trascorrere qualche giorno al castello, e così il barone Bettino si attivò per rendere il suo soggiorno piacevole e che fosse alla sua altezza e incaricò l’architetto Marchetti, di disegnare i mobili che tutt’oggi si trovano nella terza sala del palazzo, chiamata appunto la stanza del re. Questi mobili sono in noce massello e lavorati a mano, e in questa stanza, ovviamente c’è anche il letto nel quale avrebbe dovuto dormire Vittorio Emanuele. Tuttavia, quando, il 22 aprile 1863 il re arrivò al castello, anziché trascorrervi qualche giorno, vi trascorse solo poche ore. Chi, all’epoca, ebbe la fortuna di assistere all’incontro fra il re e il barone Bettino, raccontava che fra i due ci fu un diverbio, probabilmente a causa di una fanciulla.
Questa storia è stata poi tramandata, tanto che tutt’oggi viene rammentata.”. Pensando al soprannome che era stato dato a Bettino Ricasoli: il ‘Barone di Ferro’, provo a immaginare la scena fra il re e un uomo dal carattere duro e intransigente, e cerco soddisfazione alla curiosità di chi fosse la fanciulla contesa. “Non lo sappiamo, ma che il re sia venuto qui lo testimonia un quadro del pittore Luigi Norfini che ritrae l’incontro fra Vittorio Emanuele II e Bettino Ricasoli nei pressi del castello. Quel quadro , oggi, si trova proprio nella stanza del re dove c’è anche la scrivania di Bettino Ricasoli sulla quale ci sono libri sul vino e sulla vinificazione, tutti in francese, perché all’epoca quella era la lingua del vino.”
Suggerisco a Claudio di incamminarci verso l’uscita, in fondo, quale luogo migliore per parlare di vino se non la vigna che si trova ai piedi del castello? Usciamo e costeggiamo per un pezzo le mura, una leggera folata alza un po’ di polvere della strada sterrata, rimando il momento per girarmi e guardare verso l’alto. Ogni volta che mi trovo qui mi stupisco come se fosse la prima. Il vigneto pare un mare verde che lambisce la pendice sulla quale svetta imponente il maniero.
Sì, pare proprio una sentinella e mi piace osservarlo attraverso le foglie delle viti. Resto in silenzio, anche il trattore si è allontanato, rispettoso di quel momento. “Già all’inizio del millennio – ricomincia Claudio – ci sono documenti che attestano la diffusione e la coltura della vite a Brolio, nel 1696. In un atto notarile, si assicura un carico di pregiati vini in partenza dal porto di Livorno con destinazione Amsterdam.” Aspetto che Claudio apra un altro dei suoi molteplici fogli e ne approfitto per scattare qualche foto. “Nel 1773 Pietro Leopoldo di Lorena scrive: Broglio è un’antica grande e bella fortezza, nella fattoria vi sono grandi e belle cantine ed ottimi comodi è fattoria che fa mille barili di vino che è squisito e sul gusto del Carmignano più leggero. Ma arriviamo al giovanissimo Bettino Ricasoli che nel 1829 iniziò a seguire personalmente la proprietà di Brolio. Facciamo però un piccolo inciso sulla figura del barone Ricasoli: oltre a essere stato fondatore della moderna storia del vino Chianti, fu protagonista delle vicende del Risorgimento Italiano, ed ebbe molteplici onorificenze nel corso della sua carriera politica, in modo particolare durante i suoi mandati da primo ministro del Regno d’Italia nel 1861-1862 e nel 1866-1867 e fu inoltre fondatore del giornale “La Nazione”, il cui primo numero uscì il 13 luglio 1859. Ecco, ci sarebbe ancora tanto da dire su Bettino Ricasoli, ma torniamo al vino e agli studi che fece. Il risultato per eccellenza di questi studi li ebbe dai cloni del Sangiovese di Brolio, tutt’oggi presente nelle vigne dell’azienda e, nel 1872, dopo anni di ricerche e sperimentazioni definì l’uvaggio per il Chianti Classico. Mi confermai nei risultati già ottenuti nelle prime esperienze, cioè che il vino Chianti riceve dal Sangioveto la dose principale del suo profumo a cui io miro particolarmente, e una certa vigoria di sensazione; dal Canaiolo l’amabilità che tempera la durezza del primo senza togliergli niente del suo profumo per esserne pur esso notato; la Malvagia della quale si potrebbe fare a meno per i vini destinati all’invecchiamento, tende a diluire il prodotto delle due prime uve, ne accresce il sapore e lo rende più leggero e più prontamente adoperabile all’uso della tavola quotidiana. Ecco, ti ho appena letto la prima ricetta del vino Chianti Classico in cui viene messa in evidenza la centralità del Sangiovese, vitigno principe della zona. E che lega indissolubilmente il nome di Bettino Ricasoli al famoso vino prodotto in questa zona.”
Chiedo a Claudio perché nelle etichette del Chianti Classico appare scritto 1716, visto che il Chianti Classico nacque con la ricetta di Bettino Ricasoli Foto con la data.
“Questa è una omanda che mi viene fatta spesso dai miei ospiti all’Osteria: tutto genera dal fatto che il granduca Cosimo III dei Medici, il 24 settembre del 1716, fissò in un bando i confini della zona di produzione del Chianti, in un’area compresa fra Firenze e Siena in cui nasceva già l’omonimo vino e che era già molto noto. Le zone erano quattro: Chianti, Pomino, Carmignano, e Valdarno di Sopra. Io possiedo la copia del bando originale del granduca”.
Ovviamente Claudio ha portato con sé la copia del bando e me la mostra: la prendo in mano e mi concentro su quello scritto con lo stato d’animo di una bambina che ha da poco imparato a leggere. Che buffo, dico a Claudio, guarda la grafia della lettera esse,sembra una effe!
Riponiamo con cura la copia dentro una cartellina, il rumore del portellone posteriore della macchina è il via per la prossima tappa. Oggi ci siamo presi la giornata a disposizione e il nostro peregrinare per i colli chiantigiani non è terminato: Villa Torricella ci aspetta …