Quando i pomodori, siano perini o cuor di bue, sono stati baciati dal sole estivo e sono dolci, ecco il momento di preparare la pappa al pomodoro, la celebre zuppa toscana o, più precisamente, fiorentina. La presenza del basilico nella ricetta originale conferma che è l’estate la stagione adatta a questa pappa così corposa e soda che la si può mangiare anche con la forchetta. È un piatto che rappresenta perfettamente la nostra terra, povero, semplice, con i sapori della regione e l’amore delle mamme che lo preparavano, adatto a tutti, bimbi e nonni con denti malfermi. Sapete? Si dice che questa pappa fosse un modo per far mangiare l’aglio ai bambini e liberarli dagli insidiosi vermi intestinali, perché, si sa, l’aglio ha un potere antibatterico, come anche il basilico.
La pappa al pomodoro è nata come piatto di recupero per non sprecare il pane raffermo, come del resto la ribollita o la panzanella. Il pane deve essere rigorosamente “sciocco”, non salato, quel pane frutto dell’orgoglio fiorentino, che seppe rinunciare al sale pisano, pur di non pagare gabelle eccessive, o dare soddisfazione ai rivali, ecco.
Per me si tratta di un comfort food, un cibo che consola, che arreca all’animo ricordi e sensazioni uniche, talvolta nostalgiche. Voi avete un cibo che vi coccola, riportandovi magari indietro nel tempo?
L’odore della pappa al pomodoro, mentre sobbolle sul fuoco, mi ricorda mio padre che la preparava con quel senso d’attesa che solo gli spiriti semplici di una volta sapevano nutrire. L’aroma del basilico, che lui gettava nella pentola, fiducioso, si sprigionava per la stanza. Il basilico rappresenta ancora per me il simbolo dell’estate. Gli antichi lo ritenevano addirittura un’erba magica e sacra a Venere, i romani credevano che allontanasse la stanchezza e la depressione. Mio padre si faceva anche un decotto col basilico ( “basilikon” in greco significava “pianta regale”) e diceva che lo aiutava a digerire. Preparava la pappa nei tardi pomeriggi d’estate. Veniva in cameretta da me e da mia madre, apriva le persiane che avevamo chiuso per non lasciar trapelare il sole e con il mestolo di legno in mano ci diceva con entusiamo: “Preparo un po’ di pappa al pomodoro per cena, vi va?” La domanda era un proforma. Lui aveva già deciso e noi, del resto, eravamo contente. Io lo seguivo in cucina e lui mi allungava delle falde lucide e rosse di un pomodoro perino. Ne andavo golosa. L’aglio già sfringolava nell’olio caldo, poi vi aggiungeva i pomodori tagliati a pezzi, il pane duro a tocchetti e del basilico. Ci versava dell’acqua calda e aggiustava di sale. Credo facesse cuocere il tutto per almeno venti minuti, poi decorava con altro basilico, ci metteva il pepe nero e ancora olio, a freddo. “Questa è da leccarsi i baffi”, diceva ogni volta. Non era rossissima, ma piuttosto rosacea. Non è la stessa pappa coloratissima che trovo nei buffet invernali degli aperitivi, che molti ristoratori adottano, forse, anche per convenienza economica. Sono tutte buone, certo, ma non sono la stessa cosa.
Fuori dalla Toscana questo piatto povero, ma gustosissimo fu conosciuto nei primi del novecento, allorché, tra il 1907 e il 1908, uscì “Il giornalino di Gianburrasca“, dello scrittore Vamba, dapprima a puntate sul “Giornalino della Domenica”, periodico fiorentino, e poi in volume illustrato nel 1912. Molti si ricorderanno anche lo sceneggiato della Rai, del 1964, tratto dal libro e interpretato da Rita Pavone. La colonna sonora fu proprio dedicata al piatto fiorentino. “Viva la pappa col pomodoro! La pancia che borbotta è causa del complotto, è causa della lotta: ‘abbasso il direttor!’. La zuppa ormai l’è cotta e noi cantiamo tutti vogliamo detto fatto la pappa al pomodor!”. La celebre canzone “Viva la pappa col pomodoro”, scritta da Lina Wertmüller, musicata da Nino Rota e cantata da una giovanissima Rita Pavone, è indimenticabile per molte generazioni, anche perché ebbe un successo enorme, una grande eco come il libro che contò innumerevoli ristampe.
La storia, una sorta di diario molto divertente, per piccoli lettori, ma anche per adulti, narrava le avventure di Giannino Stoppani, detto Gianburrasca, un bambino fiorentino piuttosto birichino che si vede spedito in collegio dai genitori esasperati. Gianburrasca, stanco della solita minestra di riso servita nel convitto, manomette in cucina gli ingredienti consueti e riuscirà ad avere in cambio una deliziosa pappa al pomodoro: “Evviva, evviva! Oggi a desinare si è finalmente cambiato minestra!… Abbiamo avuto una eccellente pappa col pomodoro alla quale le ventisei bocche dei convittori dei collegio Pierpaoli han rivolto con ventisei sorrisi il più caldo e unanime saluto…Noi della Società segreta ci si guardava ogni tanto con un sorriso diverso da tutti gli altri perché sapevamo il mistero di questo improvviso cambiamento. Chi sa che tragedia era successa in cucina!”.