• Ven. Nov 22nd, 2024

Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

La colonnina di mercurio segna trentadue gradi mentre Massimo, la mia giovane e simpatica guida, si arrampica tra i viottoli e le stradine di Vezzano Ligure, un piccolo paesino che rimane appollaiato tra la Toscana e la Liguria. Mi mostra angoli, lapidi, pietre d’ inciampo e mentre io arranco dietro di lui e prendo appunti, mi racconta piccole storie, aneddoti, eventi che presero vita (anche se sarebbe più giusto dire morte) il mattino del 7 dicembre 1944, quando reparti delle SS tedesche, aiutati da bande fasciste della Spezia chiusero il paese a tenaglia, per attuare una dei rastrellamenti più feroci e duri, che colpirono questa ampia parte della Lunigiana, che va dalla Spezia fino alle pendici delle Alpi Apuane. “Cercavano i partigiani- mi dice Massimo- qualcuno scappò prima, avvertito da delle spie, altri rimasero ma fu tutto inutile. Un ragazzo tentò di scappare ma fu colpito e rimase riverso lungo la strada. Gridava aiuto, ma nessuno poté scendere per soccorrerlo. Giù in basso c’erano i tedeschi, che, con le loro mitragliatrici, avrebbero sparato a qualsiasi cosa si fosse mosso nel loro raggio d’azione. Passò tutta la notte in strada lamentandosi e morì sotto gli sguardi pietosi dei suoi compaesani”. Poco più avanti mi fa vedere un uscio di casa dove “…Una donna, Vera Giorgi, fu uccisa mentre tornava da fare la spesa con una raffica di mitra. Aveva 28 anni”. Ogni angolo ha una sua storia, ogni porta di casa un suo ricordo, un viso a cui ricollegarsi. “Ci andarono pesante qui” continua a dirmi, quasi divertito nel vedermi sbuffare con fatica lungo questo calvario della memoria. Arriviamo, infine, in cima ad una salita che determina anche l’uscita dal borgo vecchio. Sulla parete del palazzo civico, una lapide ricorda i nomi di tutte quelle vite spezzate, alcuni morti quel giorno ed altri deportati nei famigerati campi di sterminio di Mauthausen e di Auschwitz. Riprendo fiato e li osservo con calma. Due più di tutti colpiscono la mia attenzione:  Adriana Revere di anni 9, deportata ad Auschwitz insieme alla madre ed al padre (che invece andò a Flossenburg) e Rino Andreeani, il cui nome, stranamente, è inciso  nel marmo, ma privo dell’inchiostro nero per renderlo leggibile. Lo faccio notare a Massimo e lui sorridendo, come se si aspettasse la mia domanda, mi dice che fu lo stesso Rino a “grattare via” il suo nome da quella lapide, perché lui da quel campo di concentramento ci tornò, ma vivo! Il mio stupore per quella notizia aumenta quando Massimo mi dice che può portarmi a casa dei nipoti di Rino,  che abitano poco più in basso e dove  ci sarà sicuramente qualcuno ben felice di raccontarmi questa storia.

Suoniamo al campanello di una bella villetta, lungo la strada principale ed ecco apparire alla porta una signora dal viso gioviale: conosce Massimo e ci accoglie in casa con piacere. Lui le aveva già detto che saremmo passati e ci fa trovare del materiale pronto: un opuscoletto scritto dal nipote in occasione di una cerimonia, un libro che raccoglie la storia di quegli avvenimenti (Una storia nostra, di Anna Valle, edizioni Giacchè) ed un “santino”, lo stesso che la sua famiglia aveva fatto stampare credendolo morto e che Rino faceva vedere ai suoi paesani quando andava a passeggiare per il paese. Le chiedo di raccontarmi la sua storia e, intervallata da qualche momento di commozione, ecco riemergere la figura di Rino, un ragazzo come tanti, classe 1924 che il 7 dicembre 1944 viene fatto prigioniero dai tedeschi al termine del già citato rastrellamento e portato inizialmente nella caserma del XXI Reggimento Fanteria, tristemente famosa perché punto di raccolta di tutti i prigionieri. Da lì, Rino venne   inviato al carcere di Marassi a Genova e poi essere  destinato a un campo di lavoro a Linz: e nella città austriaca se ne perdono le tracce, tanto che alla fine della guerra viene dato per morto. La realtà, tuttavia, era completamente diversa: un colonnello medico dell’esercito americano, al momento della liberazione del campo, aveva notato, sopra un mucchio di cadaveri, un uomo ancora vivo. Era Rino. Lo mandarono in alcuni ospedali di guerra e da quello di Merano lui scrisse una serie di lettere che arrivarono, tutte insieme, alla famiglia incredula. Alcuni suoi compagni di prigionia raccontarono più tardi le durissime condizioni di vita del campo, le umiliazioni, le percosse, i cui segni rimasero sempre visibili sul suo corpo e la fame. Proprio per questo motivo Rino un giorno si avventò su un pezzo di pane di segale e mangiandolo con avventatezza, complice la forte debilitazione, fu colto da un febbrone che per poco non lo fece morire. Le conseguenze di tutto quello fu una malattia chiamata meningite cerebro spinale con sclerosi a placche. In questo stato  lo ritrovò il fratello quando andò a riprenderlo a Merano: distrutto, ma vivo. Il resto della sua vita dovette passarlo tra le conseguenze delle brutalità subite e quei mostri che ogni notte andavano a trovarlo, facendolo svegliare di colpo durante il sonno. Elisa mi racconta che la sorella Pierina, su suggerimento dei medici di allora, per garantire al fratello un ricovero mentale, si prodigò nell’assisterlo, durante le azioni quotidiane tanto da dovergli insegnare un’altra volta a mangiare, a parlare, ad esprimersi. Rino tornò ad una vita normale, se così si può dire, e, contrariamente a quanto ci si potesse aspettare, ebbe sempre un sorriso per tutti. Rino amava la vita e non pronunciò mai una parola di odio verso i suoi aguzzini. Elisa ricorda  che ogni mattina, appoggiandosi ai suoi due bastoni, percorreva il breve tratto di strada che lo separava dal piccolo bar di paese, cantando e fischiando.  A tutti quelli che incontrava mostrava il suo santino e diceva “Vedete? Una volta io ero come voi”. Di tanto in tanto, andava a vedere quella lapide e silenziosamente cercava di grattare via il suo nome da quell’elenco, perché Rino, finché ha potuto è sempre stato come noi, vivo. Uscendo dalla casa di Elisa, nel piccolo giardino di fronte, mi saluta una signora anziana, le stringo la mano: è Pierina. L’ultra novantenne sorella di Rino che mi ringrazia per essere andato a trovarla. Pierina mi dice che la storia di suo fratello deve essere tramandata ed è proprio quello che spero di fare raccontandola.

Prima di scrivere questo articolo ho cercato un’immagine della piccola Adriana Revere e dopo aver rovistato in rete per un bel po’, quando ormai mi davo per sconfitto, è saltata fuori da sola. È la foto di una bambina sorridente che amava la vita, proprio come Rino e, immagino, come tutte quelle altre persone di cui non conosciamo la storia, ma di cui possiamo ancora percepire la presenza. Non ve la farò vedere, vi sfido ad andarvela a cercare. Sono sicuro che, come è successo a me, ne troverete centinaia, migliaia, vi ci perderete in mezzo e tutte vi rattristeranno.  Sicuramente vi faranno anche salire una lacrima di commozione, ma se sarete aperti di cuore, come lo fu Rino dopo quella tremenda esperienza, vi faranno apprezzare la libertà e la gioia di vivere.