OLTRE|FRONTIERA
Destinazione: San Juan del Lurigancho, Lima, Perù
Coordinate: 12°00′08″S 77°00′30″W
Distanza da Firenze: km 10.780
Il raggiungimento della libertà, per un carcerato, è un percorso fatto di sofferenza e di privazioni indicibili. Ma quello di Juaña Lazo Diaz è diverso. Il suo cammino è rappresentato da un sentiero di 25 minuti che corre lungo la collina dove è situata casa sua, e arriva fino all’entrata secondaria del carcere. Sì, perché la casa di Juaña si trova all’interno della cinta muraria del penitenziario peruviano di San Juan del Lurigancho, vicino a Lima, che si piazza ad un onorevole ottavo posto fra le carceri peggiori del mondo. Qui i detenuti non sono separati e girano per la struttura, liberi di ammazzarsi a vicenda o di commettere atti di violenza d’ogni genere.
Reclusa tra i reclusi, Juaña è una signora di 74 anni, dai tratti accentuatamente andini, che cammina con il bastone e che ama raccontare barzellette, nonostante tutto. Grazie ad un permesso speciale, che le evita i controlli ai due ingressi della struttura, ogni mattina, Juaña percorre quel sentiero accidentato ed esce dal carcere, per poi farvi ritorno al tramonto. Si porta sempre appresso due borse, dove tiene documenti, ritagli di giornali che parlano della sua incredibile storia, e foto degli anni passati. Juaña è abbastanza nota in Perù; la sua battaglia contro l’Istituto Nacional Penitenciario le è valso il soprannome di “Dueña de Lurigancho”, vale a dire la padrona di Lurigancho.
La sua vita è il racconto di una scelta coraggiosa, in difesa della propria dignità e di quella della sua famiglia.
Siamo nel 1966. Un nuovo carcere viene costruito in una zona semidesertica vicino a Lima, San Juan del Luringancho, per alleggerire le strutture detentive della capitale. Il posto di capo della manutenzione viene offerto al padre di Juaña, che prima di quell’incarico aveva lavorato presso la Colonia Penal Agrícola, in Amazzonia. Per rendere ancora più allettante la proposta, viene offerta al padre la possibilità di prendere possesso di una grande casa padronale che si trova su una collina nelle immediate vicinanze della struttura. È l’opportunità di una vita e il padre la coglie al volo. Juaña cresce in questa casa enorme, con i suoi otto fratelli. Per trent’anni la vita scorre serena, la casa è sempre piena di amici, e le luci della casa sono sempre accese. Di quei giorni festanti, non rimane niente: se li è portati via lo stesso vento che oggi fa sbattere dei tristissimi teli di plastica appesi alle finestre. Da lontano, la casa sembra abbandonata. E lo è per molti versi, perché negli anni se ne sono andati tutti quanti.
Nel 1966, infatti, l’Inpe decide di allargare la struttura. Originalmente pensato per ospitare fino ad un massimo di 2500 detenuti, il penitenziario versa, all’epoca, in gravissime condizioni di sovraffollamento, superando i diecimila prigionieri. L’allargamento prevede l’inclusione della casa all’interno del perimetro. È una decisione unilaterale che non prevede rimborsi, né buonuscite. I funzionari danno per scontato che una volta circondati dalle nuove mura del carcere, gli inquilini se ne andranno di loro spontanea volontà. Ma le cose non vanno esattamente come previsto. Nel frattempo Juaña si è sposata e avuto due figli. Alla morte del padre, i 250 metri quadrati della casa passano a lei, la primogenita, grazie ad un meccanismo di successione chiamato “trasferimento di possesso”. Juaña trova la decisione dell’Inpe un vero e proprio abuso di potere: il padre aveva lavorato duramente per dare una casa sicura alla sua famiglia, e abbandonarla così, senza niente in cambio, le sembra una decisione che non onora la sua memoria. Juaña è istruita, ha finito le scuole superiore ed ha frequentato l’università, sa che può vincere questa battaglia. Così decide di rimanere, contro tutto e contro tutti, anche contro i suoi fratelli, che progressivamente se ne vanno tutti quanti. A parte la decisione dell’Inpe, il ’96 è un anno davvero funesto per Juaña, perché il marito, dal quale si era comunque separata qualche anno prima, muore. Quando anche i figli lasciano la casa, Juaña rimane completamente sola al mondo, circondata dai muri del carcere e da migliaia di persone poco raccomandabili. Gli anni passano, e la vecchiaia rende il sentiero dalla casa all’uscita sempre più difficile. Juaña cade più di una volta e decide di smettere di fare la spesa. Il frigorifero non le serve più, e se ne libera. La casa, progressivamente, perde le sue principali connotazioni domestiche. D’altronde, a che serve avere un soggiorno in ordine e accogliente, oppure una cucina piena di leccornie, se nessuno ti viene più a trovare? Perché, se è vero che Juaña entra ed esce dal carcere con facilità, lo è altrettanto il fatto che per chi vuole farle visita, le cose si fanno maledettamente complicate. Non è come andare a trovare un figlio, un fratello o un marito detenuti, il giovedì, giorno di visite; per andare da Juaña è necessario inoltrare all’autorità giudiziaria un permesso scritto, e anche in questo caso il permesso è accordato raramente. Talmente raramente che nessuno, né i fratelli, né i figli, né i figli dei suoi figli, la va più a trovare da anni ormai. Nemmeno per il suo compleanno. La solitudine e l’abbandono che questa donna ha dovuto affrontare, sono difficilmente immaginabili, e sono il frutto di sistema ottuso e corrotto, che non ha rispetto per le persone fragili ed indifese. Praticamente, Juaña sta combattendo una battaglia impari, armata solo del suo coraggio e della pensione che le ha lasciato il suo ex-marito.
Convinto che la casa fosse di sua proprietà, l’Inpe ha chiesto due volte lo sfratto, ma le procedure non sono mai partite. La stessa arma che impedisce compiutamente all’Inpe di ottenere lo sfratto esecutivo, e cioè il trasferimento di possesso in mano a Juaña, è la stessa che le sta impedendo di ottenere il risarcimento di circa 73mila euro, che il suo avvocato – che la patrocina gratuitamente – ha chiesto allo stato. Se in mano avesse un certificato di proprietà vero e proprio, sarebbe tutto più facile. Allo stato delle cose, quindi, la vertenza andrà avanti ancora per molto tempo. Ci vorrà ancora pazienza. Ma questo non è un problema: di pazienza, Juaña, ne ha da vendere. Anzi, si può dire che dal 1996 la sua vita non è altro che un lungo, estenuante esercizio di pazienza. Nel frattempo, se volete incontrarla, basta andare la mattina presto presso la bancarella della sua amica Telma, proprio fuori dal carcere. La troverete seduta lì a fare colazione, con il suo sguardo fiero rivolto verso il giorno che sta nascendo. Chiedetele cosa ha nelle sue borse e lei vi racconterà una storia.
Fonte: Internazionale, Wikipedia