OLTRE|FRONTIERA
Destinazione: Ilama, Dipartimento di Santa Barbara, Honduras
Coordinate: 14°55′N 88°14′O (Santa Barbara)
Distanza da Firenze: 9.600 Km
“Hola Irene (nome di fantasia), come stai? Todo bien?”
“No D., nada esta bien…da quando Marcos (nome di fantasia) è finito dentro, non ho nessuno, non ho soldi…la pandilla mi ha lasciata sola. Così non ce la faccio. Marcos diceva che se succedeva qualcosa, loro mi avrebbero aiutato, perché la pandilla è una grande famiglia… Invece non si è fatto vivo nessuno…nessuno, capisci?! Sono disperata, aiutami…”.
“Ti porto belle notizie, allora. Tuo marito ti ha mandato dei soldi. Li puoi andare a prendere a Calle de la Libertad (nome di fantasia), al numero 15. Tu bussa, digli che ti mando io. Loro ti aprono e ti danno i soldi, non devi neanche entrare. D’accordo? Vai stasera stessa. Ti aspettano a mezzanotte”.
Otto anni fa, con una conversazione non molto diversa da questa, D. (il nome è vero, ma è abbreviato per mantenere l’anonimato) ha attirato “Irene” in un quartiere dove poteva agire indisturbato, e mentre lei bussava alla porta, lui le ha sparato alle spalle. D. racconta di non aver esitato, di non aver avuto paura. Eseguiva un ordine, niente di personale: neanche la conosceva quella ragazza. L’ordine veniva dai piani alti dell’organizzazione criminale in cui D. aveva militato fin da bambino. Moglie di un pentito in carcere, la sua frequentazione di un quartiere controllato dalla banda rivale, aveva convinto i capi che lei stesse passando agli altri delle informazioni e, di conseguenza, che fosse necessario risolvere il problema. Tanto basta, da queste parti, per finire ammazzato come un cane.
In Honduras agiscono due potenti organizzazioni mafiose, due grandi pandillas: la Ms13 e il Barrio18. Come in tutte le parti povere del mondo, anche qui la criminalità organizzata ha, tutt’ora, una forte valenza sociale: essa rappresenta spesso l’unica reale alternativa alla fame, alla miseria, alla negazione del futuro. Ma se nei decenni passati l’affiliazione offriva davvero una sorta di protezione e di aiuto, adesso questo aspetto paternalistico è del tutto scomparso, sebbene chi ne fa parte continui a parlare di “grande famiglia”, quando si riferisce alla sua organizzazione. Il potere della Ms13 e del Barrio18 va oltre il controllo del territorio e delle attività illegali: esso si estende anche alle carceri, all’interno delle quali le due mafie hanno un’organizzazione gerarchica precisa, che detta regole e punizioni, senza che il sistema carcerario eserciti alcuna forma di contrasto a questa sorta di autogestione penitenziaria. D. faceva parte del Barrio18, e oggi è in una di queste carceri: il posto è chiamato sinistramente El Pozo, ed è una struttura di massima sicurezza. Ci è finito nel 2021, e ci rimarrà per altri vent’anni, anche se non per quel brutale omicidio. Quello è stato solo l’inizio della sua carriera. Durante i cinque anni successivi, ha ucciso almeno altre dieci persone e commesso tutti i tipi di reato possibili ed immaginabili. Poi nel 2020 c’è stato il passaggio da semplice membro ad affiliato vero e proprio. C’è un rituale che sottende questa investitura criminale, si tratta del “brinco”, e consiste in un pestaggio violento da parte di tre affiliati anziani, a cui il neofita si deve sottoporre. D. lo ricorda ancora con orgoglio e una sorta di commozione, il suo brinco.
Con molto meno piacere, invece, ricorda in cosa si è trasformata la vita avventurosa di criminale senza regole, sognata da bambino e divenuta realtà dopo anni di militanza a bassa intensità. I nuovi compiti consistevano, essenzialmente, nel trovare soldi e gestire il gruppo di persone con cui assolvere questo compito: un lavoro più simile a quello di un manager che di un gangster, per come la vedeva D. Solo che, in un’azienda, il manager che fallisce viene licenziato, oppure può dimettersi, mentre dal Barrio18 non può accadere né una cosa, e né tantomeno l’altra. Se un obiettivo viene fallito, la punizione è il pestaggio a sangue. L’allontanamento dall’organizzazione, invece, è semplicemente inaccettabile, ed è una condanna a morte certa, se si prova anche solo a chiederla. L’idea romantica del Barrio18 come una grande famiglia in cui tutti i membri sono compagni preziosi e – come tali – protetti, e in cui vige uno spirito di fratellanza e di appartenenza, comincia a sgretolarsi. D. non fa in tempo ad elaborare questa sua delusione per la nuova dimensione del suo lavoro, che viene rinchiuso ad El Pozo. E qui, se è possibile, è ancora peggio che fuori. Il desiderio di sottrarsi a questa vita, che l’aveva sfiorato mentre era libero, diventa una necessità. La reclusione non gli vale l’esenzione dalle sue responsabilità di capo zona. Attraverso cellulari messi a disposizioni dai detenuti, che il Barrio18 ha eletto a capi dell’ala dove sono rinchiusi tutti gli appartenenti al gruppo, D. è costretto a gestire il suo gruppo e il suo sostituto per continuare a far arrivare soldi all’organizzazione. In un posto come quello, la possibilità che un affiliato si stanchi e possa diventare un traditore e un informatore, per avere condizioni migliori, è molto alta. Per sopire qualunque idea di ribellione negli scontenti, e far proseguire l’attività all’esterno, questi capi tengono i subordinati in un costante stato di paranoia e di minaccia alla loro vita, mettendoli gli uni contro gli altri, sotto una pressione costante fatta di minacce e continue richieste di lealtà, in un clima di diffidenza e di sospetto. Così D. si ritrova carcerato due volte: dal El Pozo e da il Barrio18. Allora chiede ai capi la possibilità di tirarsi fuori, di abbandonare la pandilla, per dedicarsi alla religione. La risposta è un no senza speranza. Ma D. non vuole avere più a che fare con Barrio18, ed elabora un piano disperato per riuscire a liberarsi di questa gabbia nella gabbia. D. informa i familiari – ha anche una moglie e un figlio piccolo – che uscirà dalla gang, in un modo o nell’altro, e dice loro di trasferirsi il più lontano possibile, non prima di informare la polizia del carcere e il direttore, che il Barrio18 lo vuole morto. Poi dà il via al suo piano: di giorno in giorno si mostra sempre più indisciplinato con i capi, fin quando il messaggio è chiaro, e viene decretata la sua condanna a morte: sarebbe finito impiccato, arrotolato in una coperta e buttato nella spazzatura, il tutto in pochi minuti. Un giorno, durante le operazioni di conta, D. esce dalla fila e si mette a correre verso un’altra sezione. Quattro affiliati del Barrio18 lo inseguono, lo bloccano, cercano di trascinarlo di nuovo verso la sezione di appartenenza, dove hanno il controllo assoluto e possono eseguire la sentenza di morte anche subito. Le guardie circondano i cinque con i fucili spianati. D. lotta disperatamente, tutti i detenuti urlano e picchiano sulle sbarre, assetati di sangue, come spettatori di un combattimento gladiatorio. Poi la polizia riprende il controllo e ammanetta D., trascinandolo verso la sezione di appartenenza. Nonostante sia tumefatto dai colpi ricevuti, D. continua a divincolarsi con tutte le forze che ha in corpo. Pochi metri prima della linea da cui era scappato, arrivano il capo delle guardie e il direttore. D. li implora di ucciderlo lì sul posto, perché tornare in sezione significava morte certa. Nessun direttore vuole un morto nel proprio istituto, figuriamoci una morte annunciata davanti a così tanti testimoni: spiegazioni da dare, giornalisti da respingere, ispezioni, inchieste…Meglio non rischiare. Così il direttore ordina che il prigioniero ribelle venga portato in un’altra sezione, fuori dal controllo della gang. L’ala de El Pozo dove viene rinchiuso D. non ha servizi igienici, è abbandonata a se stessa, e l’aria è irrespirabile. Doveva ospitare dei laboratori professionali per il reinserimento dei detenuti, ma il carcere è sovraffollato e ogni spazio utile viene sfruttato per la detenzione. Ci sono altri dieci prigionieri, qui. Assicurare loro un’adeguata protezione, sarebbe gravoso e complesso, per cui sono tutti qui, dove la loro gestione è più semplice e non rischiano di venir uccisi da un momento all’altro. D. non ha contatti con nessuno. La sua cella è meno di tre metri quadrati. Poiché il cortile è troppo pericoloso, la sua ora d’aria è camminare fuori dal quel buco – fisico e metaforico – ammanettato ai polsi e alle caviglie.
Ma D. si dichiara libero. E si sente libero. Suona davvero strano sentirglielo dire, in un posto come questo. Ma forse siamo noi che siamo troppo liberi per comprenderlo.
Fonte: Internazionale, Wikipedia