A Carrara c’era venuto in vacanza, nel 1968, al mare, d’estate, con la moglie e le loro due bambine. Una tappa quasi obbligata, quella nella terra dell’anarchia, per un anarchico vero come era Giuseppe, Pino, Pinelli. E poi a Carrara aveva un amico, ovviamente anarchico: Alfonso Failla, che era stato tra i fondatori della FAI, Federazione Anarchica Italiana e del circolo anarchico di Carrara, città in cui si era stabilito dopo aver militato nella Resistenza tra i partigiani, prima in Sicilia, dove era nato e poi in Lombardia e Toscana. Anche Pinelli, che aveva vent’anni meno di Failla, aveva un passato nella Resistenza di Milano, la sua città. Essendo solo un sedicenne all’epoca era stato una staffetta partigiana nella Brigata Franco, legata alle Brigate Bruzzi e Malatesta. Pinelli aveva fondato diversi circoli anarchici nella sua città e teneva i contatti con i circoli di Roma e anche di Carrara. A scuola era andato fino alla quinta elementare, l’obbligo previsto fino agli anni sessanta, perché era figlio di un ferroviere e doveva cercarsi presto un lavoro, ma di studiare, Pino, non smise mai, appassionato di letteratura e di politica, pur lavorando come garzone e poi come magazziniere e, infine, come ferroviere, come il padre, lavoro che gli permetteva di viaggiare gratis e quindi andare a visitare anche i vari circoli anarchici sparsi per la penisola. La sua passione per la cultura lo porta a gestire la libreria del circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, l’ultimo da lui fondato, e ad organizzare incontri e conferenze con personaggi della cultura anarchica o comunista. La sua preparazione e il suo innegabile carisma lo portano ad essere considerato, anche dalle forze dell’ordine, come una specie di riferimento dei movimenti anarchici milanesi e, quindi, ad essere puntualmente fermato in occasione di ogni disordine o attentato della drammatica stagione di piombo che stava, appunto iniziando, in Italia in quegli anni. In commissariato per essere interrogato, in quell’ossessiva caccia all’anarchico della fine anni sessanta, Pinelli c’era finito una quantità di volte, tanto da essere, quasi, diventato amico del giovane commissario Luigi Calabresi, che ne aveva compreso il valore umano. Abbastanza amico, da regalare al commissario il suo libro preferito: L’antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters. Abbastanza amico da seguire volontariamente, col suo motorino, l’auto di Calabresi, che gli aveva chiesto di andare in questura per essere interrogato, la sera del 12 dicembre 1969, a poche ore dallo scoppio della bomba dentro la Banca dell’Agricoltura, in Piazza Fontana. Certo di tornare a casa, dopo, come chi, quell’iter lo aveva fatto tante volte. Sicuro, come chi sa di essere innocente. Fiducioso come chi crede nel senso di giustizia del suo interlocutore. Invece a casa, Pino Pinelli, non ci tornò più. Volato da una finestra, senza che mai nessuno seppe dire veramente come, perché e soprattutto quale mano lo spinse. La diciottesima vittima della strage di Piazza Fontana, stritolata dall’ingranaggio inarrestabile che doveva, per forza, coprire i colpevoli.
A casa non tornò, ma tornò a Carrara e per sempre. Dopo un funerale, che vide la sua Milano invasa di gente afflitta, costernata, sconcertata e dopo la sepoltura nel cimitero milanese di Musocco, furono gli anarchici carraresi che sentirono il dovere di ospitare la tomba di Pinelli nel cimitero di Turigliano e di onorarne la memoria con un monumento particolarmente significativo: un grande cippo di marmo con la semplice dedica, “A Pino, gli anarchici” e la lapide che riporta la poesia dal titolo Carl Hamblin, tratta dall’Antologia di Spoon River. Quella che parla della giustizia, solo apparentemente candida, perfetta e imparziale, che sotto la benda rivela la putredine di occhi, che sanno ben distinguere il bene dal male e non per questo scelgono il primo.
Carl Hamblin
La macchina del Clarion di Spoon River fu distrutta
ed io spalmato di pece e coperto di penne,
per aver pubblicato questo il giorno in cui gli Anarchici
vennero impiccati a Chicago:
“Vidi una donna bellissima con gli occhi bendati
eretta sui gradini di un tempio di marmo.
Grandi moltitudini passavano davanti a lei,
sollevando la faccia ad implorarla.
Nella mano sinistra teneva una spada.
Brandiva quella spada, colpendo a volte un bimbo, a volte un operaio,
ora una donna che tentava sottrarsi, ora un folle.
Nella destra teneva una bilancia;
nella bilancia venivano gettati pezzi d’oro
da quelli che schivavano i colpi della spada.
Un uomo con la toga nera lesse da un manoscritto:
“Ella non rispetta gli uomini”.
Poi un giovanotto col berretto rosso
balzò al suo fianco e le strappò la benda.
Ed ecco, le ciglia erano corrose
dalle palpebre imputridite;
le pupille bruciate da un muco latteo;
la follia di un’anima morente
le era scritta sul volto –
ma la moltitudine vide perché portava la benda.