“Io da grande farò l’archeologa!”: è l’annuncio che Elena Sorge fa, in occasione di una visita nell’area archeologica di Roselle, il giorno in cui si unisce alla classe IV del Liceo Dante, nella quale la madre insegna. Ha 10 anni. Dopo questo annuncio resta fedele al sogno e a 23 anni diventa archeologa con la specializzazione alla Scuola Normale Superiore di Pisa. La sua è una vera passione, me lo dice mentre sorseggia una tisana calda per alleviare i postumi di una giornata passata, all’insegna del maltempo, in uno scavo a Volterra. Asportare, togliere terra, cercare sotto, scoprire, disvelare ciò che è nascosto al nostro sguardo: provo una sorta di curiosità morbosa per la parola “scavare” e, soprattutto, sullo stato d’animo di cosa si provi nel disseppellire.
Elena mi regala quello stato d’animo con grande partecipazione: “C’è un che di profanazione, quando scavi, un senso di scoperta, unitamente al fare qualcosa di sottilmente illecito. Per esempio: quando trovi una tomba, porti alla luce ciò che era destinato a restare occultato per l’eternità”. Quando poi mi dice che scavare è come recuperare le pagine di un libro strappato mi emoziono e vengo abbracciata da un’aura romantica, che mi rende partecipe di quei momenti, che Elena continua a descrivermi con enfasi. Mi calo nell’atmosfera e osservo insieme a lei quella che, ad un primo sguardo, potrebbe sembrare la “vera” di un pozzo: l’indizio che potrebbe condurci a una tomba. È proprio su questo punto che mi soffermo per capire quale tipo di ragionamento porti a fare certe considerazioni e così scopro, grazie alle sue parole, che l’archeologo fa un lavoro investigativo e che la mente elabora dati conosciuti e certi, collegando ciò che sa a quello che potrebbe essere, raccoglie le energie, – tutte quelle che ha a disposizione – ponendosi interrogativi sul significato e sul perché di quella singola tomba: perché solo lei e perché in quel luogo. Immagino Elena davanti alla “vera” mentre le gira intorno, mentre intenta un dialogo con quella potenziale scoperta. Mi conferma che è proprio così: “Dal momento in cui ti trovi lì, ti fai delle domande e le rigiri a quello scavo che devi fare, è una sfida per la tua intelligenza. Cerchi di convincere a palesarsi qualcosa che è celato”. Più volte ribadisce che, per chi fa questo tipo di mestiere, è importante, basilare, essere pronto a farsi sorprendere, essere disponibile a ciò che si troverà, perché la bellezza dell’archeologia è anche questo: pensi che sia stato trovato tutto e invece non è così, sotto i nostri piedi ci sono tesori ancora da scoprire, come il trovarsi davanti a un muro palesemente romano e il non sapere cosa ci sarà dopo.
Nel luglio 2015, a Volterra, nel terreno di un privato, viene, appunto, rilevato un indizio. Inizia per Elena Sorge un periodo di grande entusiasmo, di grandi conversazioni e grandi punti interrogativi, studi, accertamenti, supposizioni, e la “macchina” per dare l’avvio agli scavi si mette in moto, così nel 2019 “L’anfiteatro che non c’era” viene invitato a palesarsi. Su quell’area, a seguito di molteplici alluvioni avvenute nel corso del tempo, si erano create delle stratificazioni, ognuna di esse è stata luogo di più attività e usi: da anfiteatro, a cava di materiali, a luogo di coltivazione. Ed ecco che alcune pietre del periodo Giulio Claudio, celate alla vista dal primo secolo dopo Cristo, tornano a mostrarsi nel 21mo secolo.
Come coordinatore degli archeologi della sua soprintendenza è abbastanza libera di occuparsi, prevalentemente, di questa scoperta. Quando gli scavi sono aperti, Elena, è impegnata quattro giorni la settimana e, nonostante il ruolo le consentirebbe di dirigere gli scavi senza sporcarsi minimamente, con gli occhi che brillano esclama: “Sono sempre la più sudicia!” e il perché non riesca a tenersi lontana dallo scavo, mi è chiaro, mentre, sorseggiando la tisana, annusa l’aria rievocando l’odore della terra appena smossa dagli escavatori, nella quale affonda con le scarpe antinfortunistiche e vestita con tutti i dispositivi di protezione individuale: caschetto, guanti e giubbotto ad alta visibilità, “quelli gialli, per capirci!”, sottolinea. La descrizione è di un vero e proprio cantiere in cui esistono pericoli reali, dovuti alle quote di scavo, anche molto profonde, con la presenza costante di macchine pesanti e autocarri per il trasporto della terra. E poi ci sono gli strumenti per scavare: palette, secchi, spazzole e… “e la musica del raschiare della mitica trowel sullo strato della terra”.
Sarà per il mio visibile punto interrogativo dipinto in fronte che, subito dopo, mi dice che il trowel è una cazzuola tagliata a rombo: “Insomma, tutto questo fa la differenza come tra leggere un libro e farselo raccontare! Non c’è partita!”.
È in quel “sono sempre la più sudicia” che è racchiusa l’essenza dell’archeologa. “Alla fin fine, non smetti mai i panni di questo mestiere! Diventa un modo di essere, un modo di vestire. Golfoni, pantaloni con le tasche, giacca a vento… sinceramente, mi ci vedi con un tacco 12?”. La sua simpatia è contagiosa, non posso esimermi dal ridere. Conosco Elena da qualche anno ed effettivamente è l’emblema della semplicità e praticità. È proprio sull’abbigliamento che mi racconta un aneddoto, anche se per qualche secondo si sofferma in caccia di un nome. Mi lancia un indizio: un giornalista che portava sempre il farfallino. Faccio un veloce “scavo” nella mia mente e il nome di Philippe Daverio viene alla luce: “Brava! Lui!”. Ironizza un po’ sulle défaillance della sua memoria con lo spirito tipico dei fiorentini, dopodiché prosegue sulle considerazioni che Philippe Daverio fece alcuni anni fa a Firenze, in occasione della presentazione di un libro, quando incontrò l’allora soprintendente archeologo: “Finalmente un archeologo vestito da archeologo!”.
Riprende a parlare, mi proietta in un mondo i cui gli anni a ritroso sono talmente tanti, che perdo il conto. Faccio domande, cerco di collocare date, luoghi, rilevamenti. Esordisce con un “Siamo gente strana! Capisco!”. No, no, nessuna stranezza, è che sono talmente tante le informazioni che passo da un anfiteatro che non c’era, alla “vera” di un pozzo, perdendo di vista gli spazi temporali. Torniamo sul pozzo che, poi, in realtà, era la bocca di un dolio, un grande vaso che ospitava una sepoltura. È una tomba antichissima, risalente al nono secolo avanti Cristo, rilevata in località Ortino, in provincia di Volterra, oggi esposta nelle nuove sale del Museo Guarnacci. Le chiedo quale sensazione si provi nel riportare alla luce una tomba: “Tiri fuori pezzi sparpagliati come un puzzle da 10 mila pezzi e tu ne hai a disposizione 40!”.
Questa frase è il condensato dello spirito con cui Elena si relaziona con il suo mestiere: ricostruire pezzi di viste vissute, spazzolare ogni reperto affinché le racconti ciò che fu, e per riuscire in questo è necessaria l’impostazione mentale di restare sempre un po’ fanciulli ed avere entusiasmo. “Fermo restando che sono fortunata, la fortuna con la C maiuscola… per intenderci: un po’ di culo!”.
Elena è così: semplice, schietta, lineare e infinitamente grata per ciò che fa, come è grata di lavorare insieme a una squadra che definisce meravigliosa. “È un lavoro che non fai da solo. Ho grandi responsabilità, ma ho anche una quantità di colleghi, che sono i migliori in questo campo. Certo, lo scavo è scienza e si avvale delle scienze esatte, l’ausilio della tecnologia del terzo millennio è necessaria e, nel nostro scavo, sono presenti i migliori tecnici disponibili, che si occupano di rilevazioni, analisi, restituzioni grafiche, indagini di ogni genere, ma fondamentale è creare un bel clima sullo scavo, divertirci ed entusiasmarci. Quando siamo a pieno regime la squadra è composta di 12, 13, anche 14 archeologi, più gli operai”.
Tornando alle emozioni del suo mestiere, le chiedo quale sia stata quella che ha provato in maniera preponderante. Nuovamente mi parla di tesori sotto di noi e della volta, in cui hanno trovato delle gallerie che si sono aperte sotto i loro piedi. E anche in questo “noi” fa capire quanto il lavoro di gruppo sia importante: tante menti un unico obiettivo. Dopo duemila anni, in sicurezza, è stata la prima ad entrare in quelle gallerie. Il suo pensiero in quel preciso istante è stato: “Mi sdraio e dormo qui, momento perfetto. Non posso chiedere altro”.
Sorseggia l’ultima tazza di tisana, che ormai si è raffreddata, questo mi dà la misura del tempo trascorso in sua compagnia. Le faccio l’ultima domanda con il progetto di vederci a breve sul “campo”, a Volterra, a “L’anfiteatro che non c’era”. Un desiderio nel cassetto: “Non è un desiderio, è un impegno: riportare alla luce tutto lo scavo di Volterra. Se non mi acciacco troppo ce la dovrei fare!”.
Foto per gentile concessione di Elena Sorge