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Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

Avenza, 10 novembre 1944. Una strage tutt’altro che precostruita

DiPietro Di Pierro

Nov 16, 2022

Erano le nove del mattino, anzi, forse un quarto d’ora prima. Nella fredda mattinata, un gruppo di persone, erano in piazza Rivellino (oggi Gino Lucetti), “alla sulaçhina”, per cercare di sopportare meglio la temperatura. Una pattuglia di soldati tedeschi arriva e va dritta verso uno di loro: è il partigiano Loris Vanni. Questi si libera della sua pistola, dandola ad un giovane che è vicino a lui, il quale scappa nei vicoli di Avenza. I tedeschi non si curano di lui, arrestano Loris e lo trascinano al presidio da cui provenivano: la villa Sarteschi della Partaccia. Già questa prima fase ha bisogno di spiegazioni: c’era stata la “requisizione” di una mucca da parte di un gruppo di partigiani. Il proprietario si era vendicato, facendo la spia al presidio tedesco della Partaccia. Solo così si spiega, perché siano andati a colpo sicuro su Loris Vanni, trascurando il ragazzo che scappava, scelta, veramente, inspiegabile per un esercito di occupazione, ma confermata dal racconto che ne fece il delatore. I compagni del Vanni, Pippo, Tito, Carlin e Ghifa, lo seguono per tentare di liberarlo, lungo l’argine del fiume, che si avvicina al viale Avenza Mare (oggi viale Zaccagna), andando verso il mare. Il punto ottimale è quello in cui il muro dello stabilimento Cokapuania fa un angolo retto, su un stradello che va dritto al Lavello. Gridano a Loris di scappare ed ingaggiano una sparatoria di copertura, Loris rimane ferito ad una mano e, per questo riporterà una disabilità permanente. Rimane ferito anche Andrea Pisani, detto Zerò, che, malauguratamente, stava lavorando in un campo lì vicino, trapassato alla gola da un proiettile, che non gli ha leso organi vitali. Ma c’è un altro ferito in quella sparatoria che le ricostruzioni storiche non hanno valutato: un soldato tedesco in bicicletta, che percorreva, al contrario, lo stradello tra il Lavello e il viale Avenza Mare. Appena svolta l’angolo, il soldato tedesco si trova, inaspettatamente, coinvolto nella sparatoria e torna al presidio sanguinante, appoggiandosi alla bicicletta. A questo punto, scatta la prima furiosa rappresaglia. Un ragazzo di diciotto anni, Angelo Pellicano, che abitava con la famiglia poco oltre il Lavello, viene immediatamente fucilato, malgrado sia conosciuto da tutti i militi del reparto, come tranquillo vicino di casa (i suoi tenevano una barca da pesca proprio sulle sponde del Lavello). La testimonianza è stata resa dal signor Giovanni Feletti, che, abitando lì vicino, assistette alla scena. Questo fatto è rimasto sconosciuto perché la fucilazione avvenne oltre il Lavello, in territorio massese e, quindi, la morte è stata registrata allo stato civile di Massa, competente per territorio. Nell’atto si legge che la morte è avvenuta alle ore nove del mattino del 10 novembre e la sepoltura è avvenuta sul posto per motivi bellici. Il nome di Angelo Pellicano è riportato sulla lapide dei caduti di Marina di Massa. Nel frattempo, i tedeschi reagiscono: prendono posizione nei punti strategici di Avenza, in primis sul ponte, e sparano a tutto ciò che si muove. Umberto Pisani, vulgo Filippo, detto “Sulinét”, viene ucciso mentre cerca di guadare il fiume all’altezza della Vietta (oggi ponte via Pucciarelli). Un altro, Aldo Guido Pucciarelli viene gravemente ferito sull’argine sinistro, lì vicino. Riesce ad arrivare alla Pubblica Assistenza e a chiedere aiuto e viene tirato dentro, attraverso il finestrino che dà sull’argine, dal dottor Carlo Menconi e dalla sua infermiera aiutante Anna Vatteroni, chiamati sul posto. Curato alla meglio, viene caricato sull’ambulanza e portato all’ospedale di Carrara, dove morirà alle 14 circa di quello stesso giorno. Nel trambusto, si libera di una pistola, lasciandola cadere nel cappuccio della mantellina dell’infermiera che se ne accorgerà soltanto al ritorno a casa: sarà proprio la stessa Anna Vatteroni, in seguito trasferita in Francia dove è morta di recente, a raccontare il particolare della pistola. In quello scorcio di mattinata è il caos. Viene ferito anche Massimiliano Menconi “Marsijliàn”, investito dai frammenti di un pluviale di ghisa, colpito da una pallottola esplosiva tedesca, sotto la “volta della Favona”, alla casa bombardata dietro la chiesa. Nella concitazione di quei momenti, i partigiani erano riusciti a fare tre prigionieri tedeschi: due addetti alle salmerie (un piccolo reparto in via Farini “dal Papa”) che dovevano portare il rancio ad altri commilitoni con un carretto ed un cavallo e un terzo che era, stranamente, un italiano con divisa tedesca, cosa non infrequente. Naturalmente furono privati delle armi e rinchiusi nella cella della caserma dei carabinieri, pensando, probabilmente, ad un possibile scambio di prigionieri. La testimonianza di Battista Tognini parla, in realtà, di un milite della X Mas, italiano, ma che vestiva la divisa tedesca, informazione testimoniata anche da altri: Riccardo Santucci ricordava di averne visti tre dalla grata del sottoscala di via Farini. Nella tarda mattinata, Colombo Ragaglini, detto Colombo d’la Sara, vecchio mazziniano, con molta saggezza, nel tentativo di evitare rappresaglie, libera i tre che corrono verso il presidio di Nazzano a villa Dervillé, dal quale, evidentemente, dipendevano.

Ma è nella seconda parte della giornata, che si sviluppa la fase più cruenta della strage. Nel tardo pomeriggio, il rumore di un motore di camion fa sobbalzare tutti: auto e camion, in quello scorcio degli ultimi mesi di guerra, li avevano solo i tedeschi e i repubblichini e la benzina la centellinavano unicamente per le azioni di guerra. Così fu. Il mezzo si fermò all’incrocio tra il viale Avenza Mare e la Provinciale Avenza Massa (al Dazi). I soldati, con il maresciallo, comandante del presidio, scesero e cominciarono a setacciare il paese. La salma di Umberto Pisani “Sulinèt” è composta nella sala della Pubblica Assistenza. I tedeschi vi fanno irruzione e portano via i tre militi volontari della Croce Verde in servizio: Bernardo Bruschi, Gino Brizzi e Argante Orsini. Li portano sul ponte e con loro rastrellano anche Ferdinando Tenerani e Angelo Menconi, che rendevano omaggio al morto e Paolo Mannini, sfollato massese, che era nelle vicinanze per caso. A questi si aggiunge Umberto Pisani detto “Canùt”, che, tranquillamente, veniva dall’argine destro, proveniente dalla macchia di villa Ceci dove, a quanto pare, era andato a tendere trappole agli uccelli. Uccidono tutti a raffiche di mitragliatore. Con Pisani si divertono: uno gli fa cenno di andare “schnell” –svelto, lui si mette a correre lungo la rampa del ponte ma, prima che raggiunga l’angolo della via Carrariona, gli sparano al volo. I tedeschi avevano tenuto separati i più giovani e le donne da quelli che intendevano fucilare. Tra i testimoni della strage, anche Riccardo Santucci futuro presidente della Circoscrizione di Avenza, che, insieme al fratello ha ricordato anche il colpo di grazia inferto ai corpi a terra. Tra i bambini del gruppo c’era anche il popolare Brizzi “Muriello” che diceva spesso “a i ho vist amazar me pa’” (ho visto uccidere mio padre).

Ma non era ancora finita: altri soldati entrano nella casa di guardianaggio della segheria Magnani (oggi Work Shop della Furrer), trovano persone “a veglia” intorno al camino, prelevano i due uomini: uno è Primo Marchi, un sarto abitante sul viale litoraneo di levante, invalido, con una gamba di legno. Le donne presenti raccontarono che poco prima Marchi aveva detto che i tedeschi della Partaccia erano bravi ragazzi, li conosceva come vicini di casa, a quanto pareva, si rivolgevano a lui per aggiustare le divise. L’altro arrestato è Vittorio Genovesi, disabile anche lui, perché minorato mentale. Quest’ultimo fa resistenza, si attacca alla maniglia della porta, mentre la madre urla di lasciarlo stare, perché non poteva capire: “E’ scemo! Non comprende!”. Per tutta risposta gli sparano un colpo sul cranio. Marchi è claudicante, non ce la fa a tenere il passo, allora lo uccidono sul ciglio della gora. Un altro concentramento ha luogo all’incrocio tra via Luni, la via nova (oggi Europa). Anche li avevano diviso i grandi dai piccoli. Quel gruppo fu risparmiato, sembra, per l’intervento del parroco, Don Frediano Moni, che, tuttavia, non poté evitare che una trentina fossero inviati alla deportazione. E di questo frangente si sa poco, mancando la traccia dei certificati necroscopici. A questo proposito si ricorda che tutti i certificati riportano la stessa ora: le 17 o le 17:30, a parte, naturalmente, quelli colpiti precedentemente: Umberto Pisani ore 10 e Pucciarelli ore 14, Pellicano alle 9.

I tedeschi vorrebbero che i cadaveri rimanessero sul luogo, a monito, fino al giorno dopo. Don Moni si fa forza e, rischiando di finire fucilato egli stesso, come racconta in una sua memoria, riesce a convincerli a farli rimuovere, per la pietà che si deve ai morti. La giornata finisce con una cannonata alleata che, proveniente da sud, colpisce la fortezza, tingendola di giallo per il contenuto al fosforo, come raccontò Cesarina Domenichini “Pirola”. I tedeschi, a quel punto, si ritirano, dopo aver provocato la morte sul suolo avenzino di 11 persone e una dodicesima oltre Lavello.

Un’ultima considerazione riguarda il perché della ferocia della rappresaglia. In precedenti ricostruzioni, non era stata considerata la possibilità che vi fossero caduti tra i tedeschi, si pensava alla beffa subita per la liberazione di Loris Vanni, oppure per il disarmo di tre soldati. Nulla però poteva spiegare una reazione così violenta. Ma proprio la testimonianza di Feletti può forse spiegare meglio la cosa: il militare tedesco ferito nella sparatoria nella prima mattinata, tornato al comando, trascinandosi attaccato alla bicicletta, potrebbe essere la ragione per cui, subito dopo il suo passaggio, un plotone a piedi ripercorse lo stradello verso Avenza. Sarebbe, quindi, l’immediata reazione militare – da non confondersi con la rappresaglia del pomeriggio con l’impiego di un autocarro. I morti della mattinata furono tre, di cui uno per rappresaglia, due per reazione militare. Con gli altri nove del pomeriggio, tutti per rappresaglia, il numero dei morti sale a dodici, dei quali dieci per rappresaglia. È probabile che il militare tedesco ferito sia morto in seguito e che questo abbia fatto scattare l’equazione tremenda di italiani uccisi per un tedesco morto. A questo proposito c’è un altro fatto testimoniato da Anna Vatteroni. Questa, trovandosi il mattino presto, negli uffici tedeschi per un lasciapassare, vide portare un soldato morto, e tutti si allarmarono per una possibile rappresaglia. Lei poi aiutò il dottor Menconi nel soccorso a Loris Vanni. Nel registro dei militari tedeschi, che fino al 1959 erano sepolti a Turigliano, si legge che l’11 Novembre ‘44 furono sepolti i corpi di tre militari: Richard Lieleprv cl.1926, Alfred Menz Cl.1926 e Otto Heller cl. 1911, tutti gefreiter, cioè caporali. Almeno uno di questi potrebbe essere la causa della strage.

Esiste anche una tradizione orale, secondo la quale, nella fase in cui venne disarmato il miliziano italiano, un altro soldato tedesco sarebbe stato ucciso, mentre inseguiva il giovane autore del disarmo, ma mancano ulteriori riscontri. Probabilmente sarebbe stata diversa la tempistica della rappresaglia e forse anche il numero delle vittime. Comunque quella caotica e tragica giornata, la cui ricostruzione resta in parte ancora aperta, segnerà la memoria storica della collettività.

Testimonianze dirette raccolte da Pietro Di Pierro.