Non sono sempre storie tristi quelle che riguardano l’Africa: ce ne sono anche molte che hanno un lieto fine e alcune di vero e proprio successo, come quella di Brian. Lo conobbi in un mio viaggio su lago Vittoria, nella città di Kisumù, dove mi ero recato per incontrare alcuni colleghi dell’Aga Khan hospital. Ero arrivato a Kisumù al tramonto e l’incontro coi colleghi era iniziato subito il mattino successivo, molto presto, per cui, fu solo nella pausa pranzo che ebbi un po’ di tempo per visitare i dintorni della città sul lago. Mentre passeggiavo, mi arrivò il suono di voci gioiose e agitate di ragazzi e, in breve, arrivai a un polveroso campetto di calcio nel quale un gruppo di giovani stava giocando una partitella sotto la guida di un allenatore che aveva più o meno la loro stessa età. Il loro entusiasmo mi colpì molto e mi fece provare il desiderio di giocare con loro, così, chiedi all’allenatore di farmi entrare in campo e lui acconsentì. In una concitata azione di gioco ebbi uno scontro piuttosto duro col portiere della squadra avversaria, che, schiacciato dalla mia mole, non esattamente da peso piuma, rimase a terra dolorante e dovette essere sostituito. Mortificato per quanto era successo, smisi di giocare e decisi di accompagnarlo a casa. Fu così che scoprii che il malcapitato portiere si chiamava Brian e che viveva “slam” (termine africano per indicare le baraccopoli fatiscenti densamente popolate) chiamato Nyalenda. In quel luogo vivevano, ammassate, migliaia di persone, con servizi igienici quasi inesistenti, masse di spazzatura accumulate in alcune zone del villaggio, case di fango ricoperte da tetti di lamiera, che, sotto il sole equatoriale, divenivano quasi incandescenti. Luoghi in cui gli europei difficilmente riuscivano a stare per più di alcuni minuti. Nella casa di Brian, che era, sostanzialmente uno stanzone, vivevano in sette. Sua madre mi offrì del tè, facendomi sedere su un vecchio tronco posto davanti all’ingresso e usato come una panchina. Hellen, la mamma di Brian, mi raccontò che, due giorni dopo, avrebbe dovuto accompagnare il figlio a Nairobi, perché il ragazzo era stato scelto per un provino come portiere in una grossa squadra della capitale. Mi disse anche che, però, non aveva la somma sufficiente per il trasporto, per cui proposi di far venire Brian in macchina con noi, mentre tornavamo da Kisumu. Portammo, dunque, Brian fino a Nairobi e lo lasciammo insieme ad altri suoi compagni al Nyayo Stadium. Per un po’ non ebbi sue notizie. Dopo circa due settimane, Hellen mi chiamò per ringraziarmi di quanto avevo fatto per il figlio. Io le risposi che era stato solo un passaggio, ma lei, quasi piangendo, mi disse che Brain era stato selezionato per andare gratuitamente in Spagna, per due settimane a spese di uno sponsor del Valencia football club, per essere visionato da alcuni teams europei e che, quindi, senza il passaggio che gli avevo dato, quella bellissima occasione sarebbe sfumata. Brian ce l’aveva fatta.
Foto per gentile concessione di Stefano Guidaci