Erano passati quasi quattro anni da quando avevo incontrato Evelyne e i chocorà, i ragazzi di strada di Mombasa. Nel 2009, le suore dell’ordine di San Giuseppe, che già avevano una piccola struttura sul terreno dove avrei costruito anch’io, mi suggerirono di far preparare un preventivo da un impresario edile di loro fiducia. All’inizio del nuovo anno, partirono i lavori di costruzione dell’edificio che avrebbe dovuto comprendere un dormitorio, con angolo riunioni ed i servizi igienici per 16 ospiti. Mancavano ancora letti, tavoli e sedie ed il denaro che avevo risparmiato per comprarli, cominciava a scarseggiare. In quel frangente, fui aiutato da Sister Jane, la suora superiore. Grazie a lei seppi che i prigionieri del vicino carcere di Shimolateo lavoravano il legno e che sarebbero stati ben felici di essere impegnati e guadagnare qualcosa. Seguii il suo consiglio, mi recai nel carcere, ottenni gli specifici permessi e, dopo due settimane, ebbi tavolo, sedie e 8 letti a due piani con una modica spesa e fui anche ringraziato. Molti volontari che operavano nella diocesi mi aiutarono a convincere e ad accompagnare una decina di bimbi di strada al mio orfanotrofio come primi ospiti da accudire ed il vescovo di Mombasa mi concesse tre suore che se ne prendessero cura in mia assenza. Io avrei dovuto provvedere alle provviste di cibo. Nel frattempo, Evelyne, l’ispiratrice del mio progetto, che era affetta da una grave forma di tumore nelle ossa, morì. Io sapevo che il suo desiderio primario era sempre stato quello di aiutare soprattutto le bambine che vivevano in strada, per questo, quando inaugurammo il centro, dichiarai pubblicamente che l’orfanotrofio si sarebbe chiamato “Mama Evelyne girl hostel”.
I primi tempi non furono semplici: da un lato, le autorità della contea non ci concessero di ospitare bambini e bambine insieme, dall’altro dovemmo fronteggiare il fatto che molti ospiti cominciarono a scappare nei boschi circostanti, perché non riuscivano a sopportare di vivere in luoghi chiusi. Mi rivolsi, allora, ad un gruppo di volontari che venivano, a turno, quotidianamente, a supportare i bimbi in un cammino di inserimento, insegnando loro a star seduti a tavola o a dormire in un letto. Nello stesso momento, l’ospedale in cui avevo fatto volontariato, mi concesse un paio di psico-pedagogisti esperti nel recupero dalle droghe leggere per aiutare i ragazzi. Le attività partirono quasi a pieno ritmo, ma, ogni tanto, qualcuno fuggiva ancora e lo rimpiazzavamo tentando di aiutare altri che arrivavano.
Con il trascorrere dei mesi, si formò un piccolo gruppo di ragazzini ormai rieducati, che, con mia grande soddisfazione, cominciarono a frequentare anche le classi elementari gestite dalle suore. Questi ragazzi, ormai, sono quasi maggiorenni ed aiutano nelle varie attività del centro, collaborando a formare anche i nuovi arrivati.
Nel 2015, grazie anche alla pubblicità che le suore facevano, il centro cominciò ad essere conosciuto. Accadde che donatori di altre nazioni decisero di sponsorizzare la costruzione di altri alloggi per orfani sullo stesso terreno. Un donatore irlandese finanziò la costruzione di 44 nuovi posti letto, ma volle rendere i suoi alloggi indipendenti dal mio, dando un altro nome ai suoi edifici. Tutto ciò era, comunque, per me, motivo di grande orgoglio, poiché quel grande terreno, dove nel 2010 sorgeva un solo isolato edificio con pochi bambini, quasi un’oasi in un deserto, stava divenendo pian piano un grosso centro di accoglienza che pullulava di voci gioiose.
Quell’anno grazie ad ulteriori aiuti, riuscimmo a costruire, nella mia struttura, anche il muro di recinzione che il governo della contea ci chiedeva per poter accogliere anche le bambine. Finalmente, dopo molti anni, si realizzava il progetto che aveva ispirato l’ideatrice e coinvolto anche me per realizzarlo: potevamo aiutare anche le bambine.
Negli ultimi anni, ci siamo posti il problema di chi e come aiuterà il centro quando, col passare del tempo, io non potrò più recarmi in Kenya. Per questo, ho pensato quindi di gettare le premesse affinché si potesse creare una “fattoria sostenibile”, la quale, con l’impegno delle suore e dei ragazzi, possa fornire il sostentamento necessario per continuare l’opera anche dopo di me. Dopo aver bussato a molte porte per trovare fondi, due anni fa, due onlus di Viterbo (Cuore di mamma e Viterbo con amore) di cui conoscevo i responsabili, hanno deciso di sponsorizzare il mio progetto che si proponeva l’acquisto di un’incubatrice per 500 uova tra galline e oche, il conseguimento di animali (qualche capra, maiali e mucche) ed un piccolo investimento al fine di rendere coltivabile una parte di bosco. Da allora, ogni volta in cui mi reco a Mombasa (una volta ogni 2 mesi circa), noto continui miglioramenti, perché le suore ed i ragazzi più grandi coltivano, hanno cura degli animali, che hanno cominciato a riprodursi ed hanno iniziato a vendere anche dei prodotti della terra e pollame, sgravandomi da molte spese.
Ad oggi, non riesco ancora a spiegarmi come e dove abbia potuto trovare le energie e l’ingegno per poter portare avanti l’intero progetto e spesso, quando varco il cancello della struttura, mi stupisco di come da un piccolo seme generato dall’esempio di una ragazza, mai vista né conosciuta prima, si sia potuto arrivare, con fede e forza di volontà, ad offrire tanto conforto ed aiuto materiale ad anime innocenti.
A conclusione, mi preme ribadire, come già fatto in altri articoli, che, volendo, si possono aiutare esseri umani meno fortunati di noi anche a casa loro, evitando di far loro desiderare terre lontane dalle loro mentalità e dalle loro abitudini e impedendo che vengano ricattati con il miraggio di viaggi della speranza che, in realtà mettono a rischio la loro stessa esistenza.
© Foto di Stefano Guidaci