Reder si era mosso, su ordine del colonnello Helmut Looss, ideatore della rappresaglia con Fischer, con una colonna di 90 camionette della “Reichsführer”. Era passato prima da Fivizzano, nella cui frazione Viano si nascondevano dei partigiani, e dove avevano rastrellato gli uomini adulti e li avevano rinchiusi nel teatro. Poi, il “monco”, si era spostato nel paesino di Colla, da dove tutti gli abitanti erano fuggiti in preda al terrore e i suoi soldati avevano piazzato dei lanciasiluri con cui avevano colpito il paese di Bardine. Dopo aver incendiato Colla, Reder e i suoi erano giunti a Canova ed avevano constatato che nella fattoria Valla c’erano tutte quelle persone ed era cominciata la conta. Intanto Reder, con 400 soldati si era mosso verso San Terenzo. Visto che a Bardine non avevano trovato nessuno, venne deciso di portare lì i 53 uomini che erano stati rastrellati dalla “Reichsführer” qualche giorno prima a Valdicastello, in Garfagnana, quando era stata compiuta la strage di Sant’Anna di Stazzema. Erano versiliesi che indossavano tute da lavoro perché dovevano essere portati al campo di prigionia di Nozzano e da lì mandati a costruire strutture difensive a Marina di Carrara, nell’ambito dell’operazione Todt, lungo il canale del Parmignola, fascia di sicurezza settentrionale della Linea Gotica. Ma i conti non tornavano ai tedeschi. A Valla c’erano 107 persone e loro dovevano ucciderne 160. Come “riserve” si erano assicurati gli uomini rastrellati a Fivizzano, chiusi dentro il teatro, e una ventina di donne, più che altro, trovate a San Terenzo, le poche non andate alla fattoria, che vennero rinchiuse nella sacrestia di Don Michele Rabino, il prete antifascista dei due paesini, che si era adoperato in tutti i modi per avvertire la popolazione dell’arrivo dei tedeschi e, per questo, fu il primo dei giustiziati. A Bardine, gli italiani dovevano morire per espiare la colpa di aver ucciso, lì, i soldati tedeschi e, alla fine, vennero scelti i 53 prigionieri della Versilia, il cui sacrificio, involontariamente salvò la vita agli uomini di Fivizzano e alle donne della sacrestia si San Terenzo. I prigionieri versiliesi ennero prima impiccati agli alberi dell’unico viale di accesso al borgo, con il filo spinato, e poi finiti, ognuno con un colpo in testa. La lezione doveva essere chiara: sul luogo della strage venne messo un cartello in italiano con scritto che quella era la fine che avrebbero fatto tutti quelli che avessero dato sepoltura a quei morti. Per tre giorni, nel caldo torrido della metà di agosto, quei poveri corpi restarono appesi, per poi essere finalmente staccati e gettati in una fossa comune nella piana più vicina.
Reder intanto era giunto a San Terenzo e, con sette suoi ufficiali si era diretto all’osteria di Mario Oligeri, costringendolo ad aprire per fare uno spuntino. Vino bianco, pane casereccio e salame, e Vermouth, ovviamente. Mario non aveva potuto opporsi. Alla fine, forse, fu anche contento che la sua famiglia se ne fosse già andata in un luogo che, anche lui, credeva sicuro. Reder ordinò il pranzo per mezzogiorno, ovviamente senza pensare minimamente a pagare, né tantomeno, al modo in cui l’oste avrebbe potuto procurarsi ciò che gli aveva richiesto. Ma all’ora di pranzo nella sala al primo piano, sopra l’emporio, tutte le pietanze vennero servite. Ad aiutare Mario c’era la cuoca storica dell’osteria, Adalgisa Terenzoni e una giovane ragazza, Emma Tonelli, chiamata, al bisogno, per servire ai tavoli. Il monco e i suoi ufficiali si sfondarono di cibo e di alcool, senza smettere mai di deridere e spaventare il personale di servizio. L’ufficiale aiutante di Reder, Paul Alberts, seduto accanto a lui, ad ogni ingresso di Emma coi vassoi di cibo mimava, mitraglia in mano, una raffica contro di lei e le diceva “Signorina kaputt”. Lei lo ha poi riconosciuto ufficialmente come responsabile della strage. I soldati di guardia, sparsi ovunque al piano e sotto, nell’emporio e in strada, andavano in cucina e giocavano con le bombe a mano, fingendo di gettarle sul fuoco per spaventare la cuoca. Mario era tentato dalla voglia di buttarli, uno per uno, giù dalla finestra. Lui era anche un macellaio e la forza non gli mancava e quegli sguaiati, osceni tedeschi erano quasi completamente ubriachi, ma era perplesso per il continuo viavai di staffette che portavano a ripetizione dispacci con sopra dei numeri agli ufficiali tedeschi. Mario non riusciva a capire cosa volessero dire quei numeri. Né capiva le accese discussioni che i militari facevano alla sua tavola, tra risate, sghignazzi, e ingozzamenti di cibo. L’ultimo dispaccio venne firmato da Reder proprio sotto gli occhi di Mario. Era l’ordine di sparare sui civili a Valla, ma Mario non poteva saperlo. Se ne andarono, finalmente, non senza avergli rubato tutto il possibile e dato fuoco al restante, ma Mario, aveva tirato un sospiro di sollievo: lui era ancora vivo e i suoi erano in salvo. Poi si senti la sventagliata della mitragliatrice arrivare dalla fattoria di Valla. Lunga, lugubre, spaventosa. Sulla strada, persone che urlavano e dicevano di non andare là, che era stato un massacro. Mario corse disperato a Valla e in quel mare di corpi riuscì a trovare tutti i suoi cari, morti. Il dolore atroce della perdita si addensò dentro al ricordo di quel che era accaduto poco prima, proprio nella sua osteria: il macabro pranzo dei tedeschi e lui che lo aveva servito agli assassini della sua famiglia.
Fonte: testimonianza di Roberto Oligeri su Youtube.