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Diari Toscani

Giornale di cultura, viaggi, enogastronomia e società

Bruno Camaiani: l’ultimo bottegaio

DiSilvia Ammavuta

Ago 10, 2022

L’incontro con Bruno Camaiani, classe 1933, ha per me un sapore misto di nostalgia e malinconia. I suoi racconti, per una piccola parte, riguardano anche la mia vita. Bruno è stato l’ultimo bottegaio di Barbischio, un paesino arroccato su di una collina, che si affaccia su Gaiole in Chianti.

La bottega di Barbischio era stata, per alcune generazioni, di proprietà della mia famiglia materna. La mia nonna Olga cessò l’attività nel 1963, l’anno in cui ebbi i natali, per trasferirsi in città e accudire me. Sebbene da quel lontano 1963, lei cessò di essere la bottegaia ma, da quel giorno, io divenni per la gente del posto, la nipote della bottegaia e lo sono tuttora. Fu così che la bottega rischiò di chiudere, per sempre, la porta in legno, con sopra affisso il cartello “Qui si vende chinino di Stato”, finché, dopo un paio di tentativi di gestione andati a vuoto, Bruno Camaiani e la moglie Graziana, si fecero convincere e riaprirono l’attività. Durante il giorno era Graziana che, dietro al bancone in legno, serviva clienti e avventori di passaggio e anche quando chiudeva, dall’ora di pranzo fino alle diciassette, non passava giorno che qualcuno non andasse a chiamarla a casa, perché necessitava, urgentemente, di qualche articolo. Con il cittino (bambino) in collo, usciva di casa di passo svelto, e con la lunga chiave in mano, apriva la bottega fuori orario per soddisfare il bisogno impellente di qualche compaesana. La sera era, invece, il consorte che, posteggiato il camion, che guidava per l’intera giornata lavorativa, andava in bottega fino a notte.

Bruno si lascia andare ai ricordi seduto nella cucina di casa sua: la stessa cucina in cui, da bambina, ogni tanto, la sera, andavo, assieme a mia nonna, a veglia.

Mentre racconta, vengo avvolta dall’odore che si respirava nella bottega. È un effluvio rievocativo, impossibile da paragonare ad altri odori: solo chi ha avuto la fortuna di entrare in una bottega di paese può riuscire a risvegliare il suo impatto con le narici. Era un cocktail olfattivo: prosciutti, salami, formaggi, sigarette, tabacco, sigari, detersivi e perfino il mangime per i polli misto, ovviamente, a quello del fumo che rimaneva intriso nei vestiti, nei capelli e nell’ambiente.

La bottega era il fulcro di tutta la comunità. Di giorno, oltre che per fare la spesa, era l’occasione per scambiare due parole e far girare qualche notizia. Di sera, gli uomini del paese e del circondario si riunivano per giocare a carte: briscola, tresette, ventuno, scopa. Fra una calata e l’altra, c’era, sempre, qualcuno con la sigaretta, o il sigaro, in bocca, e l’aria si faceva irrespirabile. Non era puzzo, non era profumo: era odore di un luogo in cui veniva venduto di tutto: dalla spilla all’astronave. E l’astronave, altri non era che un’antesignana della macchina del caffè da bar. Di quell’aria ne ho ricordo pure io, perché, mentre gli uomini giocavano a carte, con i ragazzini del posto scorrazzavo per il paese e la capatina in bottega era d’obbligo, per riuscire a scroccare una caramella al duro di menta. In un angolo, sedute su sedie impagliate, alcune donne che accompagnavano i mariti, approfittavano della compagnia, per condividere la visione di uno sceneggiato alla televisione – acquistata con il contributo dei paesani. Chiedo a Bruno a che ora chiudeva la bottega: “Poerini… finché un’avean finito la partita, chennesò, poteva essere le dieci mezza come le undici e mezza!”.

E la mattina alle otto e mezzo, la porta di legno veniva aperta dalla lunga chiave di metallo. Di lì a poco arrivava Giorgio i’panaio (il panettiere), che lasciava il pane per tutti i paesani e anche per quelli dei borghi vicini. Lo ricordo anch’io Giorgio i’panaio: suonava il clacson del furgoncino rosso, mentre arrancava sull’ultimo tornante, prima di arrivare in paese. Adoravo la sua schiacciata con l’uva, i’panello: buono come quello, non l’ho mai più mangiato.

Come il pane veniva messo sul bancone, che si trovava sulla destra del locale, arrivavano anche i primi avventori per fare uno spuntino. Pane, prosciutto e un bicchiere di vino. Chiedo a Bruno se il vino fosse a mescita o avessero avuto anche quello imbottigliato. “No, solo a mescita, ed era obbligo avere le “mesure” da un litro, da mezzo e il quartino!”.

Bruno e Graziana andarono in pensione nei primi anni ’80, e con loro si concluse un pezzo di storia della vita di paese, che si portava dietro quell’odore unico e ormai introvabile. Di lì a poco scomparve la scritta “Qui si vende chinino di Stato”, ma quelle pareti in pietra hanno ancora tanto da raccontare…

Foto per gentile concessione di Bruno Camaiani