Quando si pensa a come può essere la vita di un’attrice molto spesso ci immaginiamo realtà fatate prive di problemi e ricche di soddisfazioni. Vediamo queste donne così lontane dalla realtà che siamo abituati a vivere noi comuni mortali, tanto da sembrarci quasi irraggiungibili. Ma basta scavare un pochino più a fondo, guardare oltre le apparenze per trovare un po’ di noi in ognuna di loro. Caterina Paolinelli, attrice lucchese, ha un curriculum che spazia dai cortometraggi, alle fiction, ai documentari, al teatro fino alla pubblicità. Nella stagione 2020-2021 era tra i protagonisti della tournée teatrale di “Morte di un commesso viaggiatore” con Alessandro Haber. Nata a Lucca, ha iniziato il suo percorso artistico, formandosi presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara. Ha, poi frequentato l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma dove si è diplomata. Caterina si racconta senza timori, con un’umiltà che la rende speciale ed unica. Il suo talento d’attrice ha cominciato ad emergere già da ragazzina. Ha un fascino particolare ed unico e una bellezza acqua e sapone. Si definisce un’artista dinamica, solare ed eccentrica. Parlare con lei dà la possibilità di entrare in contatto con parti recondite del proprio essere. Oltre ad essere un’attrice impegnata, si contraddistingue per essere una donna consapevole, tenace, ironica ed autoironica. Il suo percorso formativo non si è mai interrotto: le sue esperienze sono molteplici, la sua sete di conoscenza è inesauribile.
Lei è un’attrice di teatro molto apprezzata, quando è nata questa sua passione?
Sarebbe troppo banale se rispondessi: “con me”? In realtà, io mi sono, sempre, in qualche modo, esibita, fin da piccola. Già alle elementari sgomitavo, se così si può dire di una bambina, per avere i ruoli principali: ero un elemento molto attivo in ogni recita scolastica. Crescendo, ho continuato a sentire una grande attrazione per la scena. Non ho mai avuto pudori particolari a fare o dire cose in pubblico. A scuola ero appassionata di poesia e gli autori che mi piacevano di più, erano sempre quelli che scrivevano anche di teatro. Anche in classe, io speravo, sempre, che le professoresse chiedessero a me di leggere ad alta voce per tutti. E’ sempre stata una cosa che mi ha dato estremo piacere. Poi, finita la scuola superiore, ho provato a buttarmi nel mondo dello spettacolo, ma ho avuto paura. Roma era troppo, per me, che venivo dalla provincia e, di fatto, del vero teatro non sapevo niente. Allora ho studiato all’Accademia di Belle Arti di Carrara, cercando di convincere me stessa che forse potevo fare altro. Ma al proprio destino non si sfugge, se si vuole avere una vita sana e, alla fine, mi sono buttata, stavolta più consapevole, pronta e decisa al cento per cento e infatti è andata bene. Sono entrata in una scuola di Teatro e finita quella ho iniziato a lavorare come professionista.
Qual è stato il suo percorso artistico, da dove ha avuto inizio e quali sono stati gli studi che ha intrapreso?
Da ragazzina, a Lucca, già facevo dei laboratori teatrali serali. C’è uno spazio dietro alla stazione, che si chiama Fuoricentro Teatro. Andavo lì e c’erano corsi tenuti da insegnanti che venivano da Roma, dalla “Silvio D’Amico”. Poi feci “Prima del Teatro” a San Miniato, un corso intensivo estivo tenuto, anche questo, da insegnanti della “Silvio D’Amico”. A Roma ho fatto una scuola di Metodo Strasberg, con Francesca De Sapio, che agli inizi degli anni 2000 era famosa. Ci andavano tutti: Favino, la Gerini, Santamaria. Ma io ero troppo piccola, mi sono spaventata e così, mi sono presa uno stop di quattro anni. Ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Carrara. Dopo il diploma sono andata a vivere a Milano e mi hanno presa per un corso di formazione teatrale al “Teatro del Buratto”, luogo storico milanese, che fa teatro di figura per ragazzi. Il teatro di figura non era la mia strada, ma lì ho capito che volevo formarmi. Allora mi sono preparata e ho fatto i provini di ammissione per le Accademie. Ero grande, avevo già 25 anni ed ero dubbiosa sulla possibilità di fare ancora quattro anni di scuola. Poi, venni a sapere del Master di I livello post diploma, che si poteva conseguire all’Accademia D’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma, un percorso in collaborazione con il Teatro Metastasio di Prato. Durava 16 mesi. Era a numero chiuso. Il direttore era Josè Sanchez Sinisterra, che io avevo conosciuto a San Miniato e gli insegnanti erano gli stessi dell’Accademia di Roma. Feci il provino e entrai. Da lì in poi, ho continuato a fare seminari e workshop e cerco di incontrare i pedagoghi e i registi e le registe che stimo. Il mio è un lavoro che necessita di formazione e allenamento costanti.
Cosa significa per lei essere un’attrice, ci può parlare dei pregi e dei difetti di questo lavoro, secondo il suo punto di vista?
È una domanda un po’ strana questa. Non è che “significhi” qualcosa in particolare. È più una scelta di vita abbastanza caratterizzante direi. Non c’è tutta questa poesia, della quale il mestiere è ammantato. È un lavoro duro, che ci porta ad essere molto soli e a sbattere, costantemente, contro le nostre fragilità e i nostri limiti. Poi, se uno è fortunato e becca il “filone d’oro”, si può anche vivere bene, guadagnare bene e avere vere soddisfazioni. Ma non è così per la maggioranza di noi. Si vive un progetto già pensando al successivo. La ricerca del lavoro è costante e i periodi morti fanno, spesso, molta paura, perché il fantasma del “chissà se mi richiameranno” dorme sempre sulla sponda del nostro letto. Però, quando si riesce, quando sei in scena, tutto questo svanisce, come i brutti sogni al mattino. Quando salgono le luci sulla scena ed entro e sento tutti gli occhi del pubblico su di me, lì, sono paga di ogni sforzo. Per me, poter dare vita ad altre vite, prestarmi a raccontare storie col corpo e la voce, è la più grande soddisfazione e la mia vita, senza questo, proprio non la posso immaginare.
L’arte cosa ha apportato alla sua vita?
Il continuo interrogarsi. Il non sedersi sul già noto. Questo mestiere ci porta, mi porta, a sfide sempre diverse, a stanchezze enormi, a una vita fatta di eterna discontinuità. Si stringono rapporti strettissimi con persone che, una volta finito il lavoro, potresti non rivedere mai più. Si viaggia. Si è soli in alberghi, a volte, orrendi. E poi c’è la sfida del pubblico. L’emozione della scena, anche quando sei stanco e non hai fatto in tempo a passare dall’hotel, per sfare la valigia e fare una doccia. La vita con la compagnia è fatta di continue mediazioni e di un lavoro su di sé, costante per rafforzarsi e sapere, sempre meglio, chi si è.
Ha lavorato a moltissimi progetti teatrali e cinematografici. Come si prepara emotivamente ad entrare nel personaggio e cosa le lasciano solitamente queste esperienze?
Cinematografici no. Non ho molta esperienza di grossi ruoli al cinema. Ho fatto dei corti indipendenti e i ruoli sono sempre stati piccoli. Basta il mestiere per quelli, non c’è nemmeno il tempo per prepararsi profondamente. Non siamo in America. In Italia sono, secondo me, davvero rari i casi, dove un attore ha il tempo di fare un lavoro sul personaggio, seguito da un team. Anche in teatro, il lavoro è individuale e quando arrivi alle prove al tavolino, un po’ di cose, a casa, le hai già pensate. Poi certo, il regista proietta su di te la sua visione e tu, da artista, processi la sua richiesta attraverso di te e dai la tua resa del personaggio. Non sempre il regista è felice, ma questa è un’altra storia. Ogni personaggio mi lascia qualcosa. Soprattutto quando si tratta di un ruolo, che ho interpretato in teatro. Grazie alla ripetizione, rifacendo le stesse scene ogni sera, approfondisco sempre di più il mondo della donna che interpreto. E capisco sempre un po’ meglio perché si comporta così, perché dice determinate cose. È come frequentare assiduamente una persona, che, all’inizio, ti era totalmente estranea. E quando il lavoro finisce, per un po’ ti manca quella cosa lì: ti manca quell’incontro serale fatto di preparazione e trucco, vestirsi e poi entrare in scena e vivere.
Che rapporto ha con le donne e l’amicizia, nel suo ambiente vi sono reali problemi a creare legami sinceri o questo è un luogo comune?
Purtroppo, no, non si tratta di un luogo comune. I ruoli femminili sono molti meno di quelli maschili e fino a, non molti secoli fa, anche i ruoli femminili venivano interpretati da giovani ragazzi vestiti da donna. Quindi, probabilmente, tutto nasce dalla penuria di lavoro. C’era, letteralmente, da farsi le scarpe a vicenda. Se poi condisci il tutto col fatto che il mondo teatrale, come direi tutto il mondo del lavoro, è molto maschilista e misogino, il gioco è fatto! Per fortuna, qualcosa si sta muovendo. Sono nate diverse collecting di donne attrici e registe e, sebbene riesca ancora tanto difficile, si cerca di più di fare squadra e di aiutarsi. Io conosco molte colleghe in gamba, che stanno facendo un grande lavoro su di sé per superare questi scogli. Anch’io ci lavoro da tempo. Le resistenze ci sono. Ma ci si prova. C’è la volontà vera di cambiare le cose questo è il presupposto più importante.
Lei ha un rapporto molto forte con la spiritualità, cosa rappresenta per lei?
La mia base. Io coltivo la mia realtà interiore e il mio corpo spirituale da quando avevo 20 anni, con le prime meditazioni Taoiste. Mi sono sempre rivolta verso Oriente, fin da subito, quando ho cercato “altro” rispetto a un Dio padre e giudice, che mi faceva sempre sentire sbagliata. Ho sperimentato varie cose, fino ad arrivare nel 2009 al buddismo di Nichiren Daishonin. Lo sto, ancora, praticando da allora, non salto un giorno. E, anche se non faccio più parte dell’organizzazione, continuo a studiare e a praticare. Ultimamente mi sono avvicinata al Dalai Lama. Lo trovo, estremamente, illuminante oltre che un uomo veramente molto simpatico. Io credo che darsi la possibilità di pregare o meditare sia una cosa grandissima da fare per la nostra vita. Prima di tutto per approfondire la conoscenza di se stessi, per imparare ad amare tutto di sé, anche gli aspetti più scricchiolanti. E poi aiuta molto ad avere una visione corretta della realtà, meno emotiva. Io sono diventata negli anni una persona estremamente lucida e libera e forte.
Ci parli dei suoi prossimi progetti, ed anche dell’ultima tournée che l’ha vista nei teatri della nostra penisola…
La tournée di “Morte di un commesso viaggiatore” è durata tre mesi, anziché tre anni come doveva essere, ed è stato un vero peccato. Avevamo investito tutti, tanto, in quel progetto a cominciare dalla nostra stupenda produttrice, Federica Vincenti. Il Covid ci ha dato una mazzata, veramente, imponente e anche l’infortunio di Alessandro Haber è stata una bella botta, per fortuna, molto ben gestita. È stato bello lavorare accanto a Michele Placido, ho avuto modo di crescere professionalmente molto. In questo momento non ho progetti in vista. Ho dei provini da fare, per fortuna, ma di sicuro non c’è niente. E fa anche questo parte del gioco.
Per lei cos’è la vita?
Beh, ma mi avete scambiata per un oracolo? Scherzo! La vita è un bel casino. Non saprei proprio definirla. A volte, molto entusiasmante, altre, estremamente noiosa. Altre ancora, durissima. Altre, tocchi il cielo con un dito. Potrei dire parole banali tipo: viaggio, cammino, eccetera, ma non la vedo rettilinea. Non necessariamente si va da un punto A ad uno B. Ognuno, poi, gestisce le sue carte come può. Non tutto è concesso a tutti. Ci sono persone, che non si incontreranno mai e gente che nemmeno se insisti riesci a toglierti di torno (ride) quindi… in sintesi… non ne ho la più pallida idea!