Sono qui che attendo l’uscita dei ragazzi da scuola: ecco, si apre il portone, o meglio si spalanca solo un’anta dalla quale comunque mi aspetto di vedere uscire un’orda di ragazze e ragazzi chiassosi e festanti par la fine delle lezioni e invece no. Escono ad uno ad uno silenziosi, gli zaini in spalla, a capo chino, assorti a guardare il loro telefonino che da quando è divenuto “smart” si è impossessato delle loro menti. Mi sembra di rileggere la descrizione che fa Dante nel Canto terzo del Purgatorio della Divina Commedia quando incontra uno stuolo di anime vaganti:
“Come le pecorelle escon dal chiuso
A una, a due, a tre , e l’altre stanno
timidette atterrando l’occhio e il muso;
e ciò che fa la prima le altre fanno,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno…”
Ma che è successo? Alla fine delle lezioni i bidelli faticavano a contenere le nostre esuberanze e, una volta usciti, era tutto un allegro vocio, risate, qualche cartellata scherzosa e poi via tutti a casa spensierati; ora questo mortorio francamente mi dà da pensare. Adesso neanche si salutano e, una volta arrivati a casa cominciano a chattare fra di loro; per forza, se gli viene dato in mano dai loro genitori un tablet fin da piccoli perché non “rompano” che altro ci si può aspettare? Certo oggi il mondo è cambiato rispetto ai miei tempi quando, finita la scuola e fatti i compiti, ci si radunava fra coetanei inventando i giochi più disparati per far arrivare sera. Un giorno si giocava con le biglie di terracotta antesignane di quelle di plastica o di quelle meravigliose di vetro, che solo pochi potevano permettersi; magari il giorno dopo era la volta dei tappi a corona, allora si andava alla cantina della “Mora” in via Manzoni, a Carrara, che ci riempiva le tasche di tappi alcuni dei quali, più rari, valevano anche una decina di tappi della birra Peroni, oppure era il momento delle cerbottane ricavate con le canne per scagliare i “pifferi “ fatti con le strisce di carta avvolte a cono.
Il bosco vicino casa era un vero parco giochi, a volte anche pericoloso, ma forse un angelo custode era stato messo proprio lì per proteggerci; le siepi di bosso erano ideali per ricavare le robuste forcelle idonee per le fionde con le quali poi si andava a caccia di lucertole e ramarri; non esisteva un albero da frutto che non fosse, da noi, conosciuto e visitato, talvolta con fughe precipitose alle urla del contadino che peraltro ci conosceva bene e sopportava con bonomia le nostre incursioni. Si stava fuori casa pomeriggi interi senza che i nostri genitori si preoccupassero minimamente; le frequenti sbucciature e le rare teste rotte facevano parte del quadro generale e nessuno veniva mai rimproverato tranne quando magari ci si procurava uno strappo ai vestiti, allora sì che volavano bassi. All’imbrunire, richiamati a gran voce, si rientrava a casa per ripulirci un po’ prima della cena e poi a nanna pronti per affrontare un’altra gioiosa giornata. Era raro sentire pronunciare il pronome personale “io” poiché quando si parlava si parlava sempre di “noi”, riferendoci ad un gruppo o ad una comunità alla quale ci si sentiva di appartenere.
Oggi purtroppo sembra che non sia più così, ci si va chiudendo sempre più in noi stessi, pensando solo ai nostri meschini interessi, senza più badare ai problemi di chi ci sta accanto e magari soffre. Siamo alla fine della solidarietà? Eppure l’essere umano ha bisogno, come asseriva Epicuro, di amore per soddisfare uno dei suoi bisogni primari altrimenti non è vita. Recentemente mi sono avvicinato ad una comunità che assiste ragazzi portatori di gravi handicap e lì ho incontrato un folto gruppo di giovani che, volontariamente, fa da supporto a questi ragazzi; si, sono giovani con il loro bravo smartphone che però sanno tenere in tasca; ed allora non ho potuto fare a meno di pensare con gioia che c’è ancora speranza!