La Mentos nella Cocacola
Non è comodo, né popolare e, a parte qualche rara approvazione, non rende simpatici, andare in direzione ostinata e contraria. Di certo non è un mood forzato per accendersi fari addosso: primo perché, mai, ho inseguito i fari, secondo perché, mai, ho interpretato ruoli per ottenere consensi. Anche perché se fossi riuscita a domare quella parte che si indigna e ruggisce, dentro e fuori di me, sicuramente sarei altrove, meglio collocata, e mai mi verrebbe in mente di dar davvero fiato ai miei pensieri. Vi confesso che un po’ mi temo: so di essere estrema, spesso, nelle mie ire, soprattutto, verso ciò che viola il mio senso di giustizia, il mio senso del decoro, il mio buon senso e, ovviamente, il mio cuore. Sbaglierò, probabilmente. Sarò disapprovata (ma per quello ormai, c’è la fila), sarò giudicata, il più delle volte, male. Sarò, forse, anche condannata: a perdere amicizie, più o meno di facciata, a essere esclusa, a essere evitata perché troppo ingombrante – ma anche lì, tranquilli, arriverete tutti esimi. Una cosa sola posso garantirvi: sarò autentica. Nulla di ciò che scriverò sarà una sciocca provocazione che mendica like. Odio queste cose, odio chi vive di questi espedienti, odio chi costruisce insulse carriere su questi miseri mezzi. Odio. È una parola terribile, che in realtà detesto, ma che, in direzione ostinata e contraria persino rispetto al mio raziocinio e al mio cuore (che, dopo, si rivela sempre zuccheroso, o coglione) mi esce d’acchito, quando qualcosa mi fa dannare, come la Cocacola esce dalla bottiglia se ci butti dentro una Mentos. E io ci posso anche provare a contenerla, a rimetterci il tappo, a chiudere il foro d’uscita con una mano, ma la Cocacola deve uscire e lo fa comunque, non se ne torna calma e frizzante dentro alla bottiglia. Il punto, però, non è la Cocacola, ma la Mentos. Non chi reagisce, ma chi provoca. E anche se non sono mai riuscita, in tutta la mia vita, a dimostrare che, quantomeno, hanno entrambi la stessa responsabilità, ho deciso di impostare questa rubrica proprio su questo e, per questo, vi chiedo di ricordare, se avrete voglia di leggere, che c’è sempre una Mentos che fa esplodere la Cocacola.
La gara a chi è più attento, o più bravo (usciremo mai da quella classe delle elementari con la lavagna divisa a metà con su scritto Buoni da una parte e Cattivi dall’altra?) a organizzare eventi, celebrazioni, convegni, incontri per ricordare la lotta alla violenza sulle donne, è entrata nel rush finale e associazioni, anche le meno attinenti al tema, e politici di ogni livello si affannano a pubblicizzare la loro volontà di sensibilizzare sul problema, che dura, in molti casi, solo per la durata della giornata nazionale contro la violenza di genere che cade, appunto, il 25 novembre. Scarpe rosse, panchine rosse, vestiti rossi, coperte rosse a disegnare le lunghe scie di sangue che la retrograda, atavica convinzione di superiorità e di possesso di alcuni uomini ha lasciato e lascia sulla pelle delle donne, sulla vita delle donne. Autoapplausi e medaglie di Muttley (il cane del cartone animato di Hanna e Barbera di fine anni ’60. Quello che per ogni cretinata voleva una medaglia) e non molto di fatto per cambiare davvero le cose, ma tanto per poter avere il nome dalla parte giusta della lavagna, che quello conta per la maestra. Una massa di gente che non vede, non presta attenzione, non ascolta, ma che applaude quelli che sono nella colonna dei Buoni, senza nemmeno provare a vedere se sono davvero così buoni. E allora mi danno perché il sangue arriva come summa di abusi volutamente ignorati, in certi casi, perdonati, in altri addirittura giustificati, soprattutto non visti. Arriva da un mondo che fa a gara per celebrare la giornata contro la violenza sulle donne e che se ne sbatte beatamente le palle delle violenze perpetue che vede ogni giorno sulle donne, perché da quelle esce solo il sangue dell’anima, non quello rosso per cui fare le manifestazioni. E il sangue dell’anima delle donne sta in luoghi che nessuno contempla. Nelle quote rosa, ad esempio, che sono un insulto dichiarato all’intelligenza delle donne: voglio essere eletta, assunta, considerata perché sono preparata e adeguata al ruolo e non perché, per legge, un posto deve essere riservato a una donna. Per tacere comunque di quanto le quote rosa siano discriminanti nell’ambito delle rivendicazioni di genere, ma quello è un discorso che faremo in un’altra occasione. Oppure il sangue dell’anima delle donne si vede nel velo e nelle mortificazioni vestiarie imposte alle donne musulmane. La loro presenza è sempre più grande nella società occidentale: giustamente (e questo rende la cosa molto più grave) hanno ottenuto la cittadinanza di paesi diversi dal loro, oppure sono proprio nate e cresciute in quei paesi, vi sono andate a scuola, sono diventate donne e nel 2024 continuano a ripetere e anche a convincersi, che sia un dovere della loro religione scegliere di mortificare la propria bellezza e di danneggiare la propria salute, infagottandosi in strati e strati di abiti, anche quando ci sono 40 gradi, che devono coprire ogni centimetro della loro pelle, che non deve essere vista da altri uomini (dalle altre donne sì, ovviamente – che esistono le lesbiche, comunque, non lo contemplano?). E il retaggio di questo tipo di violenza, che adesso ha riscoperto e reso di moda la parola ‘patriarcato’, è talmente radicato che sono loro stesse ad affermare convintamente di scegliere quei costumi e di non essere costrette da nessuno a farlo. Nemmeno si accorgono di non aver mai avuto altra scelta. Come non l’avevano, nel Medio Evo, le donne cristiane a cui veniva messa la cintura di castità o le donne che per secoli hanno dovuto sposare uomini scelti dalle loro famiglie, dal padre soprattutto (cosa che, purtroppo, per le musulmane è realtà diffusa ancora oggi – altra violenza all’anima delle donne). Poco interesse e ancor meno impegno ha richiesto difendere la causa di donne straordinarie come Ahoo Daryaei, la ragazza che si è tolta i vestiti a Teheran per protestare contro le imposizioni della polizia religiosa, arrestata, dichiarata pazza e probabilmente già uccisa per il suo gesto o come Mahsa Amini, picchiata a morte per la stessa ragione. Donne uccise da uomini convinti che le donne siano di loro proprietà, che non debbano mostrarsi a nessuno tranne che ai loro stretti congiunti, che debbano essere riservate solo a loro, che non abbiano abbastanza cervello per poter decidere da sole come vivere, come vestirsi, chi amare, che fare del proprio corpo. Convinzioni distorte che gli uomini vogliono far passare come dettami religiosi, ma che sono solo produzione dei loro istinti. Allora mi sembra assurdo darsi tanto da fare per celebrare il 25 novembre e convivere con realtà di ingiusta e palese sottomissione fisica e psicologica di molte donne. Il femminicidio è la punta di un iceberg fatto di miliardi di situazioni ingiuste accolte per ignoranza, abitudine, indifferenza. A molti degli uomini che uccidono le loro donne, e anche a tanti che, per fortuna, non arriveranno mai a tali estremi, piacerebbe poter chiudere la donna che considerano di loro proprietà in una gabbia di cui solo loro hanno la chiave. Che sia fatta di stracci, di regole spacciate per religiose, di ricatti morali, di muri o di sbarre non fa molta differenza. Se non ci fossero più gabbie, forse, si smetterebbe di credere di essere proprietari della vita di qualcuno.