prima parte
Diari Toscani incontra Antonio Bilo Canella, formato come attore e regista all’Accademia Nazionale “Silvio D’Amico” di Roma. Nato a Verona, città che definisce energetica di origine e di amore. Per esigenze lavorative del padre, da bambino, viene “esportato forzatamente” a Roma, così dice riguardo al trasferimento della famiglia, restando sentimentalmente legato alla città natia e al nord, dove, appena ha avuto la possibilità, ritorna in età adulta, seppure questo abbia richiesto un processo lungo e doloroso in quanto sganciarsi dalla famiglia e da dinamiche di vita per nuove avventure non è stata una scelta facile.
Antonio, iniziamo la nostra chiacchierata prendendo spunto dall’ultima frase di presentazione: sganciarsi dalla famiglia e da dinamiche di vita per nuove avventure non è stata una scelta facile. Quale cammino ha dovuto intraprendere?
Ho cercato di essere onesto nei confronti della vita, mia e delle persone che mi circondavano, piuttosto che accomodarmi nelle situazioni. E quando questo è avvenuto ci sono state delle aperture; dal momento in cui è finita la relazione con la donna che mi ha dato due figli, automaticamente si è aperta anche la parte del cambiamento nel modo di vivere. Attualmente mi trovo a Brescia da solo, in una situazione completamente nuova. Tutto quello che faccio io è accompagnare le persone a questa riscoperta di potere della creazione della propria vita.
Cosa significa accompagnare le persone nella riscoperta della creazione della propria vita?
Molto spesso noi proviamo paura che, sostanzialmente, è la paura di morire. I cambiamenti, sono legati alla paura di perdere il lavoro, la famiglia, gli amici, le relazioni; alla base c’è la paura di non farcela, ma se scavi, scavi, scavi, capisci che c’è la paura di morire.
In senso metaforico oppure anche la paura di morire fisicamente?
È sicuramente metaforico, ma nemmeno tanto, perché si aggancia proprio all’atavica animalesca paura di non farcela, di non sopravvivere. Queste dinamiche ci fermano dal fare le scelte che magari faremmo se ci sentissimo eterni, e vedrà che scavando, sotto sotto, c’è la paura di finire l’esistenza. La paura di soffrire ci arriva dagli animali, è quindi una dinamica che è legata a delle forme animalesche che sono parte di noi, ma non sono tutto. Il lavoro dell’umanità, da quando è sorta fino a oggi, è volto a superare la sua origine animalesca e a capire “i perché” in quanto non siamo solo animali, anche se un’altissima percentuale dell’umanità ancora si gestisce in maniera animale, basando la propria esistenza sul potere, il possesso e la paura di morire. Il lavoro che faccio io porta delle tecniche per alimentare altre Forze, – basandosi su concetti filosofici che sostengono che l’essere umano non è destinato a fare il lavoro dell’animale, cioè solo sopravvivere e proliferare – ma deve accedere a quella dimensione filosofica in cui risiede ciò che noi chiamiamo Spirito: questa dimensione spirituale non è legata agli animali, ma appartiene all’Uomo. Nutrire l’essere umano con queste Forze lo rende veramente umano e non una semplice bestia. Purtroppo la maggior parte degli esseri umani si comportano come bestie. Il lavoro che faccio alimenta queste Forze spirituali non con le chiacchiere, come adesso stiamo facendo noi due, ovviamente… è un’intervista, ma le alimenta con la pratica, con esercizi, con il corpo, con la parola e con la musica.
Quindi stiamo parlando di arte: musica, parole, creazione…
L’arte è questo, solo che è stato dimenticato. L’arte nasce come modo concreto di espressività e creazione con il corpo, la parola e la musica per alimentare le forze spirituali. Poi si è trasformata in quello che vediamo oggi, perlopiù intrattenimento dovuto sempre al fatto, in parte, della paura negli artisti di non farcela, arrivando quindi a corrompersi e a ‘intrattenere’. L’artista, prima che nascessero le religioni, era il sacerdote, era colui che ricordava agli esseri umani da dove venivano e allenava in loro le forze dello spirito. Poi gli artisti sono diventati quello che sono oggi: vendono la propria anima artistica al commercio. Il giusto timore di sopravvivenza diventa “terrore” di sopravvivenza, tanto da compromettere una percentuale molto alta di essi; badi bene, tengo a precisare che c’è anche una percentuale, seppure bassa, che è meravigliosa. Se dovessi esprimermi in numeri potrei dire che l’80 per cento compromette la propria vocazione: ricordare agli esseri umani che esistono altre forze, altre dimensioni, altri mondi. La domanda che chi si corrompe si fa è: “Come faccio a incontrare i favori del mio pubblico, dei miei fruitori di arte?” Ecco che questo pensiero li porta a entrare in una spirale discendente in cui non è facile trovare un equilibrio. È chiaro che io artista mi devo preoccupare di arrivare alle persone, e questo è sano: ho una missione. Altra cosa è se faccio diventare questa preoccupazione una sorta di terrore-fobia che sposterà il mio messaggio artistico, che andrà perso, e resteranno solo intrattenimento e compiacimento rivolto alla gente per soldi, per guadagnare di più, per stare meglio.
Com’è possibile per un artista non perdere il proprio messaggio artistico senza assoggettarsi a quel terrore-fobia, di cui lei parla, senza rischiare di restare invischiati in dinamiche, entro le quali c’è rischio di entrare quando si deve campare della propria arte? Cosa deve fare l’artista per non cadere nella trappola della compiacenza, adeguandosi a una richiesta di mercato che porta a modificarne l’essenza artistica?
Questo è il problema dell’artista oggi, badi bene che una volta non era così, il problema dell’artista oggi è che può essere considerato il reietto della società o può diventare una persona invidiata, un red carpet. Se ci pensa, un genitore che si sente dire dal figlio che questo vuol fare l’artista, impallidisce, ed è comprensibile. Io nutro molto amore, compassione e simpatia per tutti coloro che manifestano questa propensione, questa vocazione. Non ho simpatia però per coloro che perdono l’autenticità. La chiave, prima di tutto, è l’originalità. Al di là del fatto che uno desideri essere artista deve, innanzitutto, riconoscersi la vocazione per una forma di arte, mettiamo la scrittura, per esempio. Succederà probabilmente in giovane età di avere una propensione alla scrittura e che questa gli venga bene; ecco, lì c’è un canale aperto, ma ciò che spesso viene sottovalutato è l’originalità. La domanda che dovrebbe sorgere spontanea è: “Visto che di scrittori ce ne sono stati e ce ne sono tanti, cosa ho io di particolare da portare al mondo? Oltre al fatto di scrivere in sé, qual è la mia originalità?” Questo è il primo punto che si affronta nei miei laboratori: scoprire la propria originalità senza compromessi. Il tipo di lavoro che faccio fare obbliga i partecipanti a essere originali, senza possibilità di scappare, è necessario fronteggiare la capacità di essere originali oppure no e chi non ci riesce in quel momento continuerà ad avere come risposta la misura di quanta fatica sia esserlo. E qui arriviamo al secondo punto, riconoscersi quella originalità e saperla praticare: far uscire quella voce unica che è la tua. Il terzo punto è sorvegliare spiritualmente la tua centratura, anche se è chiaro, come dice lei, che io mi devo preoccupare del fatto che ciò che faccio deve essere desiderato da qualcuno: io esisto come artista se qualcuno mi riconosce il ruolo, è attraverso il riconoscimento degli altri che ho la possibilità di vivere e sopravvivere. Le porto un esempio: ho vissuto per un periodo in un villaggio di una tribù d’indiani del Centro America: questi villaggi possono arrivare a un chilometro e oltre di raggio, sono come piccole cittadine fatta di tende. Gli indiani si sistemano all’interno del villaggio a distanza dal centro a seconda del loro stato d’animo. Se in quel momento si sentono sociali e desiderano stare vicino al ‘movimento’ si mettono nei pressi del focolare centrale, se hanno bisogno di solitudine si costruiscono la tenda a un chilometro di distanza da questo, e così ho fatto anch’io nel periodo in cui ho vissuto lì. All’interno di questa piccola cittadina i componenti sono liberi di dire cosa fanno. L’artista è lo sciamano, è colui che danza e suona, in quella cultura significa che è in una dimensione spirituale. Il punto qual è? Uno può autoproclamarsi sciamano, ne ha la facoltà, rapportato a noi potrebbe essere l’artista, però, se per caso la comunità, vedendoti fare lo sciamano si accorge che hai abusato di questo titolo, ti caccia, vieni esiliato. È un fatto gravissimo, per le culture tribali, darsi un ruolo che in realtà non hai, perché è millantato. Quanti nostri pseudo-artisti e pseudo-scrittori verrebbero esiliati in un sistema come quello! Comunque, questo per farle capire che il riconoscimento del ruolo che hai, da parte della comunità, è fondamentale, e questo ti consentirà di vivere per sempre bene. Nel nostro sistema è altrettanto importante avere il ‘riconoscimento’, però questo non dovrebbe, e non deve, essere acquisito con l’imbroglio, ecco perché le ho fatto l’esempio degli indiani d’America. Nella nostra società invece l’imbroglio esiste: adotto una serie di misure per avere un riconoscimento per un “ruolo”, nel nostro caso per esempio, l’artista-sciamano, che è praticamente estorto, manipolato, rinunciando a quello che sarebbe il mio ruolo autentico: il costruttore? il coltivatore? il guerriero? Si può ottenere una “via di mezzo” tra originalità e necessità comunicative per il riconoscimento, ma è fondamentale sorvegliarci spiritualmente, l’artista deve portare qualcosa di unico, e per fare arrivare la sua arte agli altri non deve perdere l’originalità.
continua…