foto di Silvia Meacci
Ogni volta che passeggio per le strade di Pistoia, vedo mia madre ragazzina e poi giovane donna, sgusciare in strade e viuzze dai nomi bizzarri. Via Abbi Pazienza, via delle Pappe, via dell’Abbondanza, via di Stracceria. In autunno a mangiucchiare caldarroste, in inverno a sgranocchiare castagne secche, o una fetta di castagnaccio. Mia madre ha un affetto speciale per la città in cui ha passato anni di impegno, spensieratezza e condivisione nel rinomato collegio. Qui ha maturato tanti bei ricordi, anche dei cibi di quei tempi. Il cioccolato spalmabile a forma di “formaggino” che comprava all’economato, la mortadella presa dal buffet serale e il pane fresco “sgraffignato” la mattina per avere un buon panino a ricreazione e i confetti bitorzoluti per i momenti di malinconia. Mi racconta che quando suo padre passava da Pistoia e andava a trovarla, le portava sempre i “birignoccoluti“, così li chiamano i pistoiesi. Dice che allora esistevano di varie dimensioni. Da 5, 10, 20 grammi fino ai giganti di 100. Alcuni erano grandissimi come una susina e, a ripensarci adesso, non si capacita come facesse a mangiarli. I confetti a riccio sono bianchi, duri duri con all’interno semi di anice o di coriandolo. Recentemente l’offerta si è arricchita di versioni più sfiziose con nocciole, cioccolato o caffè, anche se in generale il consumo è andato leggermente scemando, la produzione è diminuita e si sono ridotte le dimensioni dei singoli confetti. Sgranocchiarli non è più impossibile, tuttavia è meglio lasciarli sciogliere lentamente in bocca fino alla conquista finale. Una piccola lezione di pazienza che ai nostri tempi sembra andata persa. Il confetto di Pistoia pare che sia il più antico d’Italia. Esiste una testimonianza scritta del 1325 secondo cui il traditore Filippo Tredici, “volendo fare parentado con Castruccio [Castracani] fece dare uno confetto alla moglie, che teneva veleno, che, come l’ebbe mangiato, incontenente morìo e di subito la fece sotterrare, acciocché nessuno s’accorgesse del veleno”, così racconta nelle sue “Istorie pistoiesi” il cronista Guido Monaldi. Malefico utilizzo del dolcetto! Già dal 1300 i confetti erano serviti durante la “colazione zuccherina” per il vescovo, i prelati e i nobili in occasione dei festeggiamenti del Santo Patrono Jacopo del 25 luglio. Se in origine si proponevano frutta, vino, pane e berlingozzo, più avanti nei secoli erano serviti confetti, marmellate, pistacchi, frutti canditi, vini dolci e prelibati. I confetti erano anche lanciati per i matrimoni o in occasioni importanti. Le cronache raccontano che nel 1599, al passaggio del vescovo Fulvio Passerini, ci fu “una gran salve di coriandoli”. Detto questo è interessante riflettere come in moltissime lingue i pezzettini di carta colorati che si lanciano per carnevale, si chiamano confetti.
Perfino Fellini li utilizzò in una scena del Carnevale di Venezia nel suo “Casanova”, Fu Mauro Bolognini, regista pistoiese, a dirgli che li avrebbe trovati nella fabbrica Corsini. In origine i confetti erano prodotti come “pillole medicinali” nella Farmacia del Vescovado, fondata nel 1397, e successivamente nei retrobottega di drogherie in paioli appesi al soffitto. Solo dal 1917 la produzione acquistò un carattere industriale grazie all’intraprendenza di Corsini e all’utilizzo di “bassine”, paioli di rame rotanti, azionati meccanicamente. Sciroppo di acqua e zucchero italiano che piano pano avvolgono l’anima centrale su cui colare altro sciroppo da uno speciale alambicco per l’effetto “riccio”. I “birignoccoluti”, dolci emblema di Pistoia, non mancano mai in casa di mia madre. Un viatico per ritornare giovane, una madeleine proustiana per attivare lontani ricordi.