Dall’epoca classica fino a quasi tutto il medioevo, l’unico modo per scrivere e tramandare libri passava attraverso la scrittura a mano, generalmente su carta pergamena, effettuata inizialmente dai monaci amanuensi e più tardi da persone specializzate che venivano pagate per effettuare copie del testo prescelto, su precisa ordinazione di un committente. La diffusione dei libri era quindi un’impresa affidata a selezionati professionisti che, non solo rendeva i testi molto costosi, ma rallentava di molto la diffusione del sapere. Per questo motivo, a meno che non si avessero a disposizione ingenti somme di denaro, l’unico modo per consultare dei volumi era quello di appoggiarsi a biblioteche, che solitamente erano appannaggio di conventi o istituti ecclesiastici.
A differenza di quanto viene studiato nei libri di storia, i primi ad usare la stampa a caratteri mobili furono i cinesi che, nell’anno 1041 durante la dinastia Song, grazie all’intuito di Bi Sheng, si avvalsero di caratteri incisi nella porcellana, induriti nel fuoco e assemblati nella resina. Questo metodo presentava però un problema di rottura dopo pochi utilizzi, per cui, quasi trecento anni dopo, un altro funzionario di nome Wang Zhen promosse l’uso di caratteri scolpiti nel legno. Ancora più tardi, nel 1490 grazie a Hua Sui, in Cina e Corea si sviluppò l’uso di caratteri in bronzo. I primi libri ad essere stampati con caratteri in lega metallica, per lo più a tema religioso e rituale, apparvero in Corea sotto la dinastia Goryeo, il più antico a noi arrivato è il Jikji, un testo sul Buddhismo coreano datato 1377.
In Europa invece, i primi tentativi di stampa, si chiamavano xilografie perché prevedevano l’uso di una matrice in legno su cui era incisa un’intera pagina di un libro. Si trattava in parole povere di una sorta di timbro gigante che però non ebbe grande successo a causa della facile usura o rottura della matrice.
Chissà se ispirato dai suoi predecessori asiatici o se frutto di una geniale coincidenza storica, un orafo tedesco chiamato Johannes Gutenberg, introdusse l’uso di caratteri mobili ricavati da una lega di piombo, antimonio e stagno, stampando tra il 1453 ed il 1455 ben 180 copie della Bibbia definita a 42 linee, perché per ogni pagina, disposte su due colonne, erano disposte 42 linee di testo. Il funzionamento era abbastanza semplice: su una lastra venivano disposti i caratteri mobili, poi venivano inchiostrati e tramite un torchio, ricavato da uno di quelli utilizzati per la produzione del vino, venivano stesi dei fogli di pergamena o dei fogli fatti di carta ricavata dalla lavorazione della canapa. Questo sistema, più pratico, veloce e meno costoso (non all’inizio ovviamente) si diffuse presto in tutta Europa, specialmente in Italia, basti pensare che in tutta Europa, nel 1480, erano presenti ben 110 macchine per stampare di cui 50 solo in Italia. Tutte le maggiori città europee si dotarono presto di vere e proprie officine per stampare libri, i due paesi dove la qualità raggiunse l’eccellenza furono la Germania e l’Italia, principalmente nelle città di Roma, Napoli e Venezia.
Proprio da Venezia, un illustre lunigianese, conosciuti dai posteri come Jacopo da Fivizzano, apprese nella bottega di tal Clemente da Padova, l’arte di fabbricar libri tentando di aprire una propria stamperia nella sua città natale. Di questo personaggio, tanto importante, quanto semi sconosciuto, sappiamo ben poco. Non abbiamo infatti notizie della sua data di nascita né tantomeno di quella di morte, ma sappiamo per certo che nel 1472 tra le mura di Fivizzano (non è dato sapere dove) aprì una sua bottega, dove diede alle stampe gli “Opera di Virgilio”, le opere di Cicerone De officiis, Paradoxa stoicorum, Laelius, Cato maior, la Vita della Vergine di Antonio Cornazzano, del 1473 e gli Opera di Sallustio dell’anno seguente che sembra concludere la sua attività, senza dimenticare un Giovenale, sprovvisto di data. Terminata la sua avventura fivizzanese, tornò a Venezia dove ripresa a stampare con sempre meno impegno, scomparendo poi senza lasciar traccia, nelle pieghe della storia. È curioso notare che però, Jacopo non venne a Fivizzano da solo ma, come lui stesso dichiara nel colophon (una sorta di nota introduttiva che, a inizio testo, riportava le informazioni sulla produzione e la pubblicazione) del Virgilio del 1472, giunse in compagnia di Battista e Alessandro definendo il terzetto “Comites in amore benigni”, una frase che ha dato adito a diverse interpretazioni. La prima ci viene data dall’abate Emanuele Gerini che traduce quel “comites” con conte per ricollegarlo ad una famiglia nobile del posto, gli Onorati. Giacomo, Battista ed Alessandro diventano quindi tre fratelli che intraprendono un mestiere poco onorevole per la loro caratura sociale per il mero pregio di poter diffondere la cultura nel proprio paese. Benché in Fivizzano fosse esistita davvero una nobile famiglia degli Onorati, non esiste però alcun documento che avvalori tale tesi ed allora l’unico modo per cercare di risolvere il mistero è quello di tornare alla frase riportata nel colophon che così recita: “Jacobus existens primus: baptista sacerdos Atque allexander comites in amore benigni” che di solito viene tradotta come: “Jacopo primogenito, il prete Battista e Alessandro, compagni affettuosi in amicizia”. Loris Jacopo Bononi, illustre professore, intellettuale e letterato fivizzanese deceduto nel 2012, tradusse invece questa frase come: “Jacopo primogenito, sacerdote battezzatore e Alessandro, compagni affettuosi in amicizia” spiegando che Clemente, il già citato maestro di Jacopo, era un sacerdote per cui sarebbe più intuitivo pensare che anche un suo allievo potesse esserlo stato ed allora quel “battista” non è da riferirsi ad un nome, ma ad una specifica del sacerdote Jacopo. È sicuramente un’ipotesi affascinante, ma la realtà è che nessuno saprà mai, a meno di una qualche eclatante scoperta storica, chi fosse davvero questo Jacopo che permise alla già fiorente città di Fivizzano di pregiarsi di aver potuto stampare libri undici anni prima che a Vienna, nove prima di Londra, sette prima di Oxford, Ginevra, Barcellona e cinque prima di Bruxelles. Rimane di lui un vivido ricordo incorniciato dalle splendide parole “Comites in amore benigni”.