foto di Silvia Meacci
Ho ritrovato una vecchia ricetta di mia nonna, un foglio a righe ripiegato in due, scritto a caratteri minuti e rispettosi, violati da più macchie d’unto. È un tuffo nel passato, seguire le sue raccomandazioni e ripercorrere i suoi gesti per preparare il coniglio ripieno, piatto squisito della tradizione toscana, ma anche di altre regioni con varianti e nomi differenti. Io ne ho comprato uno disossato, mia nonna lo liberava dagli ossi da sola, con maestria, mentre canticchiava. Me la rivedo mentre tento di imitarla agganciata ad un filo di memoria: massaggio la carne con sale, olio e la cospargo con un trito di aromi. Salvia, rosmarino, aglio, pepe e, volendo, anche finocchietto selvatico. Poi dispongo la pancetta stesa e la salsiccia sbriciolata. Mia nonna si allargava e aggiungeva anche della mortadella o del prosciutto cotto, cercando, con un fare trasgressivo, la mia complicità. Di certo io non protestavo, ero una bambina e per di più una bambina ghiotta. Sapevo che mi sarebbe arrivato un bocconcino d’assaggio. Oggi voglio sgarrare a modo mio aggiungendo delle fettine di pecorino senese.
Solo quando arrivava il momento di arrotolare il coniglio, mia nonna si lasciava andare completamente al canto: “Caro oggetto, il di cui nome proferir non m’è concesso, mio delitto è sol d’amarti…”. Sempre la stessa musica, sempre le stesse parole, ogniqualvolta cucinava il coniglio, qualunque fosse la ricetta. Mi ricordo di averle chiesto a più riprese il perché di quel canto. È così sono venuta a sapere tutta la storia. Nel 1954 il nonno le chiese di andare a Milano con lei. Stava tagliando a pezzi il coniglio per farlo in umido (oh, come lo preparava divinamente! ), quando nonno le fece la proposta di andare alla prima della Scala. Sarebbe salita in scena la Callas per interpretare la “Vestale”, un melodramma in tre atti di De Jouy con la musica di Spontini. Alla Scala! Un invito che rimase unico nella loro vita, reso possibile da importanti conoscenze del nonno. Non gli succedeva spesso di viaggiare. Da soli senza i figli, poi, meno che meno.
Quella sera c’era in un palco come spettatore anche Arturo Toscanini, omaggiato dalla Callas con dei fiori. Io da bambina non conoscevo questi nomi con cui mia nonna, invece, si infervorava. La storia della protagonista, Giulia, destinata a divenire una vestale e fedele alla Dea, mi aveva però impressionato molto. Accesa da una passione impossibile per Licinio, era stata condannata a morire murata viva dentro un sepolcro. Mi immaginavo le tuniche, le ambientazioni. Mia nonna poi ci teneva a rassicurarmi e mi raccontava ogni volta con più dettagli il finale lieto, gli applausi copiosi, l’emozione, l’atmosfera e i vestiti delle signore milanesi.
Arrotolo la carne, la rivesto di pancetta e mi scorre davanti la storia dell’alimentazione del nostro paese. In Europa i conigli si consumano da quando è nato il mondo. I romani li tenevano insieme alle lepri e altre bestie della bassa corte nei “leporaria”, tuttavia l’allevamento vero e proprio cominciò nel Medioevo. In seguito all’autorizzazione di Papa Gregorio I a consumare per Quaresima i “laurices”, a base di feti e neonati di coniglio, l’allevamento in gabbia si diffuse parecchio nei monasteri. Gli animali erano in gabbie o lasciati in semilibertà in “garenne”, terreni delimitati da muri o fossati d’acqua. Tuttavia nel corso dei secoli si consolidò l’allevamento in conigliere e, se in passato venivano alimentati con semi, ortaggi e fieno, oggigiorno si utilizzano quasi esclusivamente mangimi concentrati. È anche vero che di coniglio attualmente se ne consuma meno, perché siamo tutti divenuti più sensibili alla causa vegetariana e anche perché i conigli sono sempre più spesso visti come animali da compagnia.
Quando mia nonna lo preparava, il coniglio era “di quelli buoni”, del contadino, e non ci si ponevano troppe questioni sul consumo della carne. Oggi sfido me stessa e adesso, che ho assicurato il rotolo con lo spago da cucina, lo metto in forno a 190 gradi per un’ora circa. Felice del risultato, bevo un sorso di vino bianco con cui bagnerò l’arrosto, e accenno anche io alcune note del melodramma: “Caro oggetto, il di cui nome, proferir…”.
Il mio coniglio è piuttosto irregolare nella forma, lo divido e lo servo in tronchetti, più che a fettine, perché temo che si sfaldi. Ottimo, quasi buono come quello della nonna! Giorni fa in una trattoria l’ho mangiato farcito con fegatini e interiora, forse per insaporire una carne di gusto delicato e oscillante a seconda di ciò che mangia l’animale. Come descriveva Pellegrino Artusi: “ È di non molta sostanza e di sapore variabile, al che si può supplire con i condimenti “.