A Roma è vissuto un poeta che ha scritto più sonetti di Dante Alighieri nella Divina Commedia. Giuseppe Francesco Antonio Maria Gioachino Raimondo Belli: questo accade quando i genitori non sono in completo accordo sul nome dei figli. Nacque a Roma il 7 settembre del 1791. Era figlio di Luigia Mazio e Gaudenzio Belli, la sua era una famiglia benestante. Nel 1798 i suoi genitori ospitarono Gennaro Valentino, suddito dei Borbone e per questa causa, all’arrivo dei francesi a Roma, furono costretti a rifugiarsi a Napoli. Al rientro del pontefice, il padre di Gioachino, lo chiameremo così per risparmiare prezioso inchiostro, ebbe un incarico alla darsena di Civitavecchia, era il 1800. Gaudenzio morì due anni più tardi a causa di un’epidemia che colpì la darsena. La famiglia Belli tornò a Roma e si stabilì in via del Corso, in una casa che sarebbe stata demolita per far posto al Parlamento. Nello stesso stabile abitava Francesco Spada, un epigrafista erudito che formò Gioachino. Per la serie “quando qualcosa deve andare storto, lo fa senza ombra di dubbio”: sua madre, che si era risposata nel 1806 con Michele Mitterpoch, morì nel 1807. Gioachino e i suoi fratelli e sorelle, Carlo che morì a 18 anni, Flaminia che nacque nel 1801 e si fece suora nel 1827 e Antonio Pietro nato dopo la morte di suo padre Gaudenzio, si stabilirono a casa dello zio paterno, Vincenzo Belli. Gioachino dovette interrompere gli studi e fu impiegato come computista presso i principi Rospigliosi. Furono anni difficili, nei quali Gioachino trovò alloggio in una piccola stanza nel convento dei cappuccini presso piazza Barberini. Le sue prime prove poetiche e letterarie furono scritte già nel 1805, come le ottave: La Campagna, che oggi chiameremmo un testo ecologista, nel 1812, malgrado le ristrettezze economiche, entrò nell’Accademia degli Elleni con il nome di Tirteo Lacedemonio. Più tardi partecipò all’avventura della nuova Accademia Tiberina, che si propose di mettere in contatto gli accademici che avessero idee liberali. Nel 1810 scrisse, Morte della Morte, una specie di parodia dell’inferno con la morte della stessa morte. Nel 1815 Gioachino Belli si appassionò al teatro e scrisse le farse: I finti commedianti e Il tutor pittore. Durante quel periodo scrisse anche delle terzine, La Pestilenza stata in Firenze l’anno di nostra salute, un titolo alla Wertmuller. Nel 1816 Gioachino Belli, ottenne un impiego all’Ufficio del Registro, perché la poesia è bella, ma solo con quella non si mette il piatto in tavola. Sposò Maria Conti, una vedova benestante e si stabilirono a Palazzo Poli, vicino alla fontana di Trevi. Dopo quel matrimonio, Gioachino Belli poté concentrarsi meglio sul suo lato artistico. Iniziò a viaggiare per l’Italia, visitò Venezia, Napoli, Firenze e Milano, città nella quale conobbe l’opera di Carlo Porta, comprendendo la dignità del dialetto e la forza satirica che l’idioma sapeva rappresentare. Grazie a quell’incontro, compose un inno dedicato alla plebe romana, in chiave anti aristocratica e anticlericale. In quegli anni nacque suo figlio Ciro che sarebbe stato importante qualche anno più tardi. Nel 1828, ormai nel gioco di poeta del popolo, si travestì da ciarlatano e recitò in pubblico una sua estrosa filastrocca chiamata appunto, Ciarlatano. Sembra che Donizetti si ispirò a lui per il dottor Dulcamara del Don Pasquale. Da quel momento Gioachino Belli compose una serie infinita di sonetti in romanesco, che il Belli riteneva una vera e propria lingua, non italiana, non romana, ma solo romanesca, deformazione e corruzione dell’antica parlata latina, di limitate possibilità espressive e sintattiche, destinata a scomparire se non fosse intervenuto il poeta a darle una durevole fisionomia, a farne strumento d’arte. Gioachino Belli non fu un pedissequo ripetitore della parlata plebea della sua città, né si limitò a riprodurla fedelmente, come era nelle sue intenzioni, ma, al contrario, intervenne, se con chiara coscienza o meno resta difficile dirlo, nel fatto linguistico. Nel 1837 morì sua moglie e per causa di ipoteche e debiti, fu costretto a lasciare il palazzo Poli, spostandosi presso parenti in via Monte della Farina. Nel 1839 fu pubblicata la prima raccolta di componimenti poetici in romanesco, versi di G.G.B. Romano. Nel 1841 Gioachino Belli trovò un impiego presso il dicastero del Debito Pubblico. Assistette alle insurrezioni del 1848, spettatore favorevole al cambiamento, tuttavia contrario alla violenza. Gioachino Belli fu presidente dell’Accademia Tiberina dal 1850 e nella sua veste, si trovò a vietare le opere di Shakespeare ed espresse giudizi sulle opere di Verdi e Rossini. Gioachino Belli arrivò a comporre 2.279 sonetti per circa 32 mila versi, quindi oltre il doppio della Divina Commedia. Giuseppe Francesco Antonio Maria Gioachino Raimondo Belli, morì il 21 dicembre del 1863 e fu sepolto al Verano. Nel suo testamento dispose che tutte le sue opere venissero bruciate. Per fortuna suo figlio Ciro, che in quel momento divenne la parte importante della storia, disattese le richieste del padre. Gioachino Belli è stato un poeta che ha incarnato l’anima di una città e i suoi sonetti furono trasposti nelle pellicole di Luigi Magni e di Mario Monicelli che ci hanno narrato la storia del marchese del Grillo, che il Belli aveva raccontato nel sonetto: Li soprani der monno vecchio.
Li soprani der monno vecchio
C’era una vorta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st’editto:
“Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbugiaroni, e zzitto.
Io fo ddritto lo storto e storto er ddritto:
pòzzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:
Io, si vve fo impiccà nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l’affitto.
Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo!”.
Co st’editto annò er Boja per ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e arisposeno tutti: “È vvero, è vvero!”.»