seconda e ultima parte
A fine settembre, primi di ottobre, la famiglia Benevieri, come ogni anno dai primi del ‘900, organizzava la transumanza per andare in Maremma quando ancora buona parte del territorio era da bonificare. «Il pascolo avveniva in località un po’ residuali, ovvero in zone adatte solo alla pastura che non potevano essere utilizzate per altri scopi.» Il recupero della cavalla che, insieme ad altri cavalli di proprietà di altri pastori, era stata libera per tutto il periodo estivo nelle vallate del Pratomagno, era il segnale che i preparativi erano in corso. La cavalla avrebbe tirato il barroccino, alla guida del quale c’era Rosina, la mamma di Raffaello, sul quale avrebbe trasportato tutto ciò che necessitava alla famiglia. «Non è che la cavalla venisse trovata subito il primo giorno, ma essendoci più pastori prima o poi qualcuno adocchiava il branco e a suon di passaparola, da un punto a un altro della vallata, la prendevamo. Trovata una trovati tutti., Una volta recuperata per un paio di settimane veniva messa nella stalla e nutrita con la biada, dopo che per mesi aveva mangiato erba nella valle.» E così, analogamente a chi deve intraprendere un viaggio porta la macchina a fare un controllo, Primo Benevieri, prima che la famiglia si mettesse in cammino, faceva ferrare la cavalla sapendo, oltretutto, che le strade che sua moglie avrebbe percorso erano prevalentemente sterrate. Dopodiché, radunati i pochi beni e le cassine di legno con dentro l’esiguo vestiario, caricavano tutto sul barroccino, compresa una piccola gabbia. «Anche se le nascite erano in autunno, poteva essere che il montone ci avesse fregato e fosse andato da una pecora. E così nella gabbia portavamo gli agnellini ancora troppo piccoli per poter camminare con il resto del branco, quindi la casetta veniva chiusa con un paletto e via. Tanto da rubare non c’era niente.» Conclude Raffaello, il quale non ricorda ci fosse una data precisa per l’inizio della transumanza. Probabilmente, per quanto riguarda quella che era la prima tappa, partendo di notte, doveva esserci la luna piena che rischiarava il cammino perché nella sua memoria non ci sono lampade che lo illuminassero. Da questo momento ha inizio la transumanza, che dai primi del ‘900 durava fino a una settimana quando il punto di arrivo era la Maremma, tre-quattro giorni dalla seconda metà degli anni ‘50 quando il punto di arrivo divenne il senese. Giornate cadenzate più dalle necessità delle pecore che dei pastori e dei garzoni. «Mio nonno di garzoni ne aveva svariati, il suo era un gregge di circa 2000 capi, e stavano tutto l’anno con lui, mentre mio padre di garzoni ne aveva un paio, forse tre, oltre non ne servivano avendo un gregge di circa 250 capi ed erano presenti sono nel tragitto di spostamento. I garzoni erano ragazzi che vivevano a Cetica in condizioni particolarmente disagiate ed erano felici di fare la transumanza perché, intanto avevano i pasti assicurati per tutto il periodo e poi, al loro rientro sul Pratomagno, ricevevano come ricompensa dal mio nonno dei capi di bestiame. La loro presenza era importante, le pecore vanno a ondate, non vanno tutte precise. Hanno necessità di bere e mangiare, appena vedono il greppo di una strada, in fondo al quale c’è dell’acqua, quelle si buttano di sotto. Anche se all’epoca il transito era minimale era necessario fare attenzione, perché, dopo aver mangiato e bevuto ripartivano tutte insieme, proprio come una vera onda, quindi un pastore davanti, un garzone nel mezzo e uno a chiusura. Stessa cosa anche se per abbeverarsi trovavano una fonte sulla strada, fonti che per altro erano d’importanza primaria anche per gli uomini. Qui vicino c’è il fontino di Buriano.
Quindi mio padre e mio nonno partivano con il gregge, i cani e i garzoni dal Pratomagno, di notte. In quegli anni io ero piccolino e la transumanza non la facevo con gli altri, restavo in montagna con i nonni paterni e mio fratello. Il nonno aveva partecipato alla transumanza fino a una veneranda età, poi aveva dovuto prendere atto che non sarebbe stato più in grado di farla. La mamma alla guida del barroccino partiva lo stesso giorno, ma quando c’era luce. Io restavo a Cetica e la famiglia si riuniva solo più tardi, alle volte stavamo in paese fino a dicembre. Quando fui un po’ più grande, invece, partivo con la mamma, lei con il barroccino e io con la ciuca. Una volta, a Figline, avrò avuto nove anni, nell’attraversare le rotaie del treno la ciuca scivolò e cadde, e io insieme a lei. La mamma era davanti e dato che la cavalla era una cavalla di forza e con un carattere ombroso, non poteva scendere per venire a darmi una mano, intanto le sbarre del passaggio a livello stavano iniziando ad abbassarsi, sentivo la campanella di avviso e la ciuca era sempre in terra che non riusciva ad alzarsi, finché, all’ultimo si tirò su e potemmo passare. Mi salvai, ebbi fortuna. Un’altra volta, a Siena, sotto al ponte di Ravacciano, la cavalla scivolò sulla strada in salita, per fortuna il babbo che ci stava venendo incontro arrivò preciso, riuscì a prenderla per la cavezza ed evitare, così facendo, che cadesse portandosi dietro la mamma e il barroccino. La prima tappa era piuttosto lunga, le altre in media erano dai 15 ai 20 chilometri al giorno. La strada esatta non la ricordo, comunque era la reggellese, scendevano a Figline Valdarno, andavano verso Cavriglia e salivano su verso Grimoli, appena imboccata la strada sinistra c’era un podere che si chiamava “Ulivacci”, e lì si fermavano, a seguire arrivavamo anche la mamma ed io. La transumanza aveva tappe fisse. Io l’ho fatta fisicamente per qualche anno, mio fratello restava in montagna con i nonni paterni perché era troppo piccolo. Quindi da lì ripartivamo, ogni podere dove arrivavamo eravamo sempre ben accolti e con molte famiglie abbiamo instaurato delle belle amicizie. Appena arrivati facevamo mangiare le pecore e poi il babbo le arretava, faceva un recinto. Avevamo, come tutti i pastori, una rete fatta di corda sottile, ma consistente, che era già impalata, con pali predisposti a una determinata distanza con due fili scorrevoli: superiore e inferiore. I pali venivano conficcati in terra a suon di colpi di ‘mazzo’ il cui manico era costituito da un unico pezzo di legno di faggio, e la cui estremità ricordava un uncino, era rotondeggiante e aveva una piccola cavità all’interno per colpire con precisione il palo. Messa la rete venivano munte le pecore che avevano latte che poi veniva dato al contadino che ci ospitava. Dormivamo sul materasso riempito di paglia e foglie, nella carraia, lo spazio dove venivano posteggiati i carri, e spesso stavamo sotto al barroccino perché così facendo eravamo riparati dall’umidità notturna. Ci dormivamo tre di famiglia e i garzoni, i contadini che ci ospitavano non potevano farci sistemare in casa perché eravamo troppi, però ci davano qualcosa per cena, era un dare e avere senza nessun passaggio di soldi. Dopodiché si ripartiva, la seconda tappa era a Pieveasciata. Ed ecco che si passava da Gaiole.
Se guarda davanti al bar il “Barrino”, c’è ancora la scritta Trattoria Tripoli, il mio nonno andava a mangiare lì già ai primi del ‘900, mentre le pecore venivano lasciate al meriggio sotto i tigli e gli ippocastani.
Io ci sono passato negli anni ‘59-‘60. Arrivati in Maremma il luogo dove ci fermavamo non era sempre lo stesso dell’anno precedente, per alcuni anni siamo stati alle Rocchette, poi a Mensano, a Belforte, a Monte Antico e vicino a Montemerano. Questo dipendeva molto dal podere dove ci fermavamo. I campi avevano una turnazione delle colture, l’anno in cui c’era una porzione di terra che doveva ‘riposare’ ai proprietari faceva gioco che ci fermassimo con il gregge in quella fascia di terreno a riposo. Finché nel 1965 arrivammo a Taverne d’Arbia, al podere Usinina, e lì ci fermammo, la transumanza si concluse.” Raffaello prosegue il racconto di quegli anni citando, tappe, luoghi, famiglie e aneddoti.
Rammenta lo svincolo che dalle Granchiaie porta a Pieveasciata, per andare verso San Rocco a Pilli, tappa che, quando andavano in Maremma, aveva anche un’altra funzione: era lì, negli anni in cui non aveva piovuto abbastanza e l’erba era scarsa, che lui e la mamma facevano sosta per un mese circa con un branco più piccolo costituito da pecore non in produzione, chiamate ‘sode’, le agnelle e i montoni, mentre il resto del branco proseguiva il cammino.
Seppure siano ormai trascorse decine e decine di anni da quel periodo il ricordo del passaggio a Siena, obbligato per andare a San Rocco a Pilli, è vivo come se fosse ieri, passavano da Camollia di notte per evitare improperi da parte dei netturbini che non gradivano il loro transito «lascio immaginare a lei il perché! Tanto che venivano zittiti i campani delle pecore fermando i battagli con la paglia!».
Esclama Raffaello sorridendo, e prosegue quasi con un sospiro di sollievo, come se quei chilometri percorsi li sentisse ancora nelle gambe, nel dire che la transumanza in Maremma terminò intorno alla seconda metà degli anni ‘50, perché nel frattempo si prospettò la possibilità di fermarsi nel senese per occupare quei poderi abbandonati dai contadini che si erano trasferiti in città. La mezzadria volgeva al termine e loro ebbero terre disponibili per far pasturare il gregge. «Nei luoghi dove stavamo, nei poderi, non c’erano né acqua corrente, né luce. L’acqua era di pozzo, e spesso era piovana, l’unica luce che possedevamo era in cucina ed era quella della bombola a gas con la retina che si infiammava. Per andare nelle altre stanze usavamo la candela, se andava bene avevamo il portacandela oppure mettevamo la candela sull’angolo della sedia fermandola con la cera. In camera, di sedie, ne avevamo due che facevano da comodino, oltre a servire per appoggiare i vestiti. Ovviamente niente bagno, avevamo il vaso da notte sotto il letto. Il bagno, se così lo vogliamo chiamare, era una stanzetta con un contenitore, e io non lo usavo mai. In un podere avevamo la stalla attigua alla cucina, pensi lei al ‘profumo’ di un branco di pecore, e due capre.
La mia difficoltà a invitare dei ragazzi a casa era dovuta anche a questo, oltre al resto, basta pensare che l’arredamento della cucina consisteva in un tavolo con sedie, qualche suppellettile, un mettitutto con dei ganci messo sopra all’acquaio e niente altro. La volta in cui ci sentimmo dei signori fu perché in uno di questi poderi c’era una vetrinetta a muro.»