prima parte
«Gaiole in Chianti era una tappa della transumanza, fin dai primi del ‘900, quando il mio nonno paterno partiva dal Casentino per andare in Maremma con circa duemila pecore. Eravamo sul Pratomagno, da Badia a Coltibuono si vede il versante di qua, noi eravamo nella vallata di là.»
Così ha inizio il racconto di Raffaello Benevieri, nato nel 1950 a Cetica, l’ultimo paese del Casentino del Pratomagno. Ed era a Bagni di Cetica che suo nonno Settimio, classe 1881; suo padre, Primo, classe 1915; sua nonna Enrichetta, classe 1891; e suo fratello Roberto, nato nel 1953, trascorrevano tutta l’estate, dai primi di giugno fino alla fine di settembre. «La transumanza l’ho fatta anch’io, ma quello più vicino alla vita pastorale era mio fratello. Devo confessare che da piccolo mi vergognavo di essere figlio di un pastore: frequentavo alcuni ragazzi con i quali andavamo a scuola insieme e quando venivo invitato a casa loro vedevo l’ambiente in cui vivevano, era più decoroso di quello dove vivevo io, avevano uno status sociale superiore al mio. Oggi le posso dire che porto con me questo pezzo di vita come un patrimonio culturale che mi rende orgoglioso. Tutto ciò che ho vissuto: il ‘mordere’ la vita, affrontare situazioni di disagio, patire il freddo, vivere una vita di spostamenti e imparare a fare con il ‘poco’ è stata una palestra di vita».
L’imbarazzo provato da Raffaello era nel periodo in cui si spostavano dalla montagna per andare a occupare poderi, prima nella Maremma e poi nel senese, dove restavano dai primi di ottobre fino ai primi di giugno. Nel periodo estivo la vita sul Pratomagno era analoga a quella di molti altri pastori della zona. «La casetta in cui abitavano i miei nonni paterni, mio padre e mio fratello era fatta di pietrame, la chiamavamo casetta perché era piuttosto piccola. Era coperta con lastre di pietra in modo molto artigianale, il focolare aveva solo una catena che teneva un paiolo e non c’era il camino, il fumo passava attraverso le fessure che c’erano sulla copertura, sull’altro lato c’era un letto che veniva chiamato ‘rapazzola’, ed era fatto di cose misere. Costruito in tronchi di faggio, era grande quanto l’ottanta percento di questa casetta e ci dormivano il mio babbo, il mio nonno, la mia nonna e mio fratello. Io, quando eravamo lassù, abitavo in paese con la mamma, e andavo avanti e indietro. Sulla ‘rapazzola’ veniva appoggiato un materasso di trama ruvida riempito di foglie e paglia. Dato che il pastore si spostava per la transumanza, non poteva permettersi di portare con sé un materasso ingombrante: quello, una volta svuotato, era un guscio. Sempre per motivi di praticità non c’erano cuscini, perché anche questi avrebbero preso troppo spazio. Si dormiva vestiti con una coperta addosso. Nella casa di Cetica c’era una stanza che si chiamava la caciaia, in cui veniva messo il formaggio, fatto in quel periodo con il prodotto residuale, e che veniva trasportato dalla ciuca. Il prodotto residuale viene chiamato così perché non è la massimizzazione della produzione, è una piccola parte. La pecora, se non ricordo male, ‘porta’ (cioè è gravida n.d.r.) cinque mesi. Nell’arco di un anno le nascite erano tre: una ai primi dell’autunno, una a dicembre e una a Pasqua. Il prodotto residuale era quello di Pasqua, perciò quando andavamo in montagna una parte del gregge aveva una esigua produzione di latte. Tornando alla casetta: le stoviglie stavano all’esterno, ad asciugare sopra a dei massi, e lì venivano lasciate, non c’erano pensili nei quali riporle. Quindi, oltre al paiolo che serviva per avere l’acqua calda e per fare il formaggio, c’erano poche altre stoviglie, non ricordo con precisione, posso immaginare: qualche piatto, qualche forchetta, qualche coltello e qualche pentola e il classico ‘pentolino’, per fare l’orzo, perchè il caffè non c’era. Quando l’acqua bolliva ci mettevano la polvere, la facevano depositare sul fondo e poi lo bevevano, la polvere non veniva gettata via tutta, ne lasciavano sempre un po’, finché la quantità era tale che il pentolino veniva svuotato del tutto. Poi c’era la padella per fare l’acqua cotta: venivano messe a lessare delle cipolle, appena un goccio d’olio, però ci mettevano l’uovo per dare sostanza. L’altro piatto era lo ‘scottino’: dopo aver fatto il formaggio, e a seguire la ricotta, ciò che rimaneva era il siero, di questo ne veniva presa una parte, con un cucchiaio venivano raccolti i residui di quella che era rimasto della ricotta, e il tutto versato sul del pane abbrustolito, questa era la colazione del mattino. Il resto era compensato con un po’ di scatolame acquistato all’alimentari che c’era a Bagni di Cetica, per lo più scatolette di sgombro, di tonno quando ci concedevamo un po’ di lusso. La cottura di questi piatti veniva fatta sul fuoco appoggiando la padella, o il pentolino, sul treppiede». Benevieri prosegue narrando con emozione le proprie origini, descrive il nonno paterno la cui altezza era analoga a quella del re Vittorio Emanuele III di Savoia, al quale fu forgiata una sciabola proporzionata alla sua statura che gli valse il soprannome di Sciaboletta. «’Se hanno fatto re uno piccolo, allora sono re anch’io!’ diceva mio nonno. La mia nonna era molto più alta di lui. Credo sia stato il primo pastore della famiglia, non ho notizia di cosa facessero quelli prima di lui. So solamente che mi è stato dato il nome del mio bisnonno: Raffaello». E prosegue la storia di quella che è stata la sua infanzia nei mesi estivi sul Pratomagno dove le pecore pascolavano sia nei terreni di proprietà dei genitori, che nelle ‘pasture’ di altri proprietari della zona, i quali venivano pagati con quelli che si chiamano cacarelli, cioè il letame. «Lo raccoglievano spazzando, era concime che aveva un valore. Non correvano mai soldi; forse, oltre ai cacarelli, gli davano qualche forma di formaggio» dice Raffaello. L’attesa del giorno della transumanza era cadenzata sempre dallo stesso ritmo, un rituale che si sarebbe riproposto nello stesso identico modo anche arrivati in Maremma. Il fratello Roberto, con il nonno e il padre, alzati di buonora si avviavano verso il posto dove le pecore erano arretate, ovvero il recinto entro il quale venivano radunate per la notte. «Era Roberto che mandava le pecore, utilizzo questo verbo per farle capire, in verità si dice ‘toccare le pecore’, che vuol dire, appunto, toccare con un piccolo bastone la pecora per farla muovere verso l’esterno del gregge. Ai bordi del recinto c’erano il babbo e il nonno, pronti per mungere quel poco di latte che alcune di loro avevano anche se eravamo in giugno-luglio. Dopodiché il gregge veniva lasciato libero di pascolare. Le nostre pecore erano di razza Merinos, l’ultima tosatura era stata fatta ad aprile e, anche se il vello non era ricresciuto molto, pur essendo in montagna, nel mezzo del giorno faceva caldo e quindi dovevano stare al ‘meriggio’, all’ombra di faggi o castagni. A quel momento il pastore poteva dedicarsi alla vita sociale, cioè stare insieme agli altri pastori. Spesso si univano a parlare con loro anche persone di passaggio, molti dei quali andavano alle acque termali di San Romolo, che erano lì vicino: erano acque freddissime, ed erano dette benedette.
Quando la temperatura calava un po’ le pecore venivano fatte spostare. La mungitura veniva fatta due volte al giorno, quindi c’era una nuova mungitura serale. Questo fino alla fine di giugno, poi con la diminuzione del latte, solo una volta. La giornata si allungava molto, anche fino alle ventidue in quanto il latte appena munto doveva essere lavorato subito, non c’erano i frigoriferi. Per mungere c’erano dei secchi particolari che da una parte avevano una sponda un po’ più alta, questo sia per non disperdere latte e non sporcare il mungitore, sia per facilitarne il versamento che veniva fatto successivamente in un contenitore. Utilizzavano degli sgabelli particolari, a tre piedi, perché erano più stabili di quelli a quattro. Alcuni usavano sgabelli con un solo piede. Quindi, le pecore tornavano a pasturare e loro andavano a fare il prodotto che veniva lavorato a mano. Dopo aver messo il latte nel paiolo per farlo riscaldare inserivano la mano all’interno e, con una sensibilità sviluppata nel tempo, giudicavano quando toglierlo dal fuoco. Lì veniva fatto cagliare, con quello che noi chiamavamo raviggiolo, dopodiché la cagliata veniva rotta facendoci sopra una croce e fatta depositare. In seguito, sempre a mano, la raccoglievano e la mettevano nelle cascine, che all’epoca erano di legno ed erano mobili, a seconda della grandezza che voleva essere data alla forma del formaggio, e venivano strette più o meno. Come le ho già detto: fatto il formaggio rimaneva il siero, con questo facevano la ricotta. Posto sul fuoco veniva girato perché doveva prendere il bollore, con gli occhi valutavano quando la ricotta fosse pronta: si diceva che doveva ‘scoppiare’. Tolta dal fuoco, e ripulita la parte superiore, veniva posta nel contenitore, la fuscella, che era fatta di giunchi, sostituita poi in tempi più recenti con contenitori di plastica. Con il siero facevano lo ‘scottino’ e l’ultimo residuo veniva dato agli animali. Non si buttava niente».
continua…