nona puntata
I leader sono considerati come padri, e come tali sono rispettati. Le loro cariche non sono trasferibili. Per cui Kim Il-sung, fondatore della nazione, è il Presidente Eterno, nessuno potrà mai avere quella carica, così come nessuno potrà mai ricoprire ufficialmente la carica di Segretario Generale, detenuta da suo figlio Kim Jong-Il, e quella di Presidente della Commissione per gli Affari di Stato, con la quale è in carica attualmente Kim Jong-un. Davanti ad ogni effigie dei due leader scomparsi, i nordcoreani devono inchinarsi. Non si può fotografare una statua che li commemora, inquadrandone solo una parte. Se si è troppo vicini per riprenderla tutta, è necessario allontanarsi per allargare l’inquadratura, pena il sequestro del rullino da parte della polizia, o peggio. I giornali non possono pubblicare foto dei leader a mezzo busto. Il leader deve apparire sempre nella sua interezza, e lo stesso vale per il paese: sui passaporti nordcoreani appare la dicitura Repubblica Democratica di Corea, e non Corea del Nord, a differenza dei documenti del sud. Parlare di Corea del Nord è un reato. La nazione coreana è una, e una sola, cioè quella al di sopra del 38° parallelo. L’attuale divisione è un affronto, un’aberrazione storica. La convivenza “pacifica” tra le due Coree, in realtà, è frutto di una guerra sanguinosa combattuta tra il 1950 e il 1953, che causò due milioni e 600mila vittime, quasi tutte civili, e che portò il mondo ad un passo da uno scontro nucleare su larga scala. In nome della riunificazione della penisola, la Corea del Nord, fiancheggiata da Cina ed Unione Sovietica, invase la Corea del Sud. L’Onu reagì inviando un contingente multinazionale guidato dagli Stati Uniti. Dopo tre anni di conflitto, tutto tornò esattamente come prima, con la penisola coreana divisa in due stati, lungo il 38° parallelo. Non fu mai firmato un trattato di pace, per cui i due paesi sono ancora ufficialmente in stato di guerra.
Kim Jong-il, in carica dal 1994 al 2011 aveva cominciato un lento riavvicinamento diplomatico con il sud, con l’idea gloriosa di poter, un giorno lontano, vedere il paese riunificato, ma la salita al potere del figlio ha fatto naufragare il progetto. Kim Jong-un ha cominciato fin da subito a manifestare pericolose intemperanze nei confronti del sud, dimostrando che non sarebbe sceso a nessun compromesso. L’unica Corea possibile è quella socialista, disegnata dal suo glorioso nonno. Kim ha dichiarato la Corea del Sud il primo “nemico” della nazione, inserendola come tale nella costituzione, e ha fatto abbattere l’enorme monumento dedicato all’unificazione che si ergeva all’entrata di Pyongyang. Con una certa regolarità, questo leader instabile e megalomane, dalla marcata propensione al culto della personalità, ancor più del padre e dello nonno, gonfia il petto e cerca di fare la voce grossa nei confronti degli altri attori dell’area, minacciando interventi armati o lanciando missili tattici a lunga gittata, a scopo meramente dimostrativo. Il problema è che il tracotante rampollo della dinastia Kim, alla guida del paese da ben 76 anni, è a capo di un esercito imponente e detiene un certo numero di testate nucleari, per cui rappresenta una scheggia impazzita nello scacchiere internazionale. Durante il suo regime, anche grazie alla pandemia, il numero di persone che sono riuscite a scappare si è praticamente ridotto a zero. Uno degli ultimi a farcela, sicuramente, è stato Hyeok.
Hyeok, stavolta, sa cosa dire. Non se ne sarebbe rimasto lì impalato, come il giorno prima, senza aprire bocca. Nossignore. Le avrebbe fatto capire che il suo scherzetto di tre anni prima, aveva lasciato il segno, e che non poteva sperare di rimettere a posto le cose in questo modo, con una telefonata ad effetto dalla Corea del Sud. Non era più un ragazzino. Oh sì, certo che sapeva cosa dire. Il telefono squilla, ma ancora prima che Hyeok apra bocca, Joo cala subito il poker e vince la mano.
<Ciao Oppa…vorrei che scappassi e mi raggiungessi qui a Seoul>.
Joo aveva pronunciato quelle dieci parole in modo innaturalmente veloce, come se si fosse voluta liberare di un peso che aveva sul cuore da tanto tempo. Forse era davvero così. E l’aveva fregato un’altra volta. Tutto quello che voleva dirle era diventato completamente inutile. Nel giro di due secondi, due, le recriminazioni di Hyeok si erano sgonfiate, la sua frustrazione e la sua paura erano passate in secondo piano, tutto ingabbiato dentro la più semplice delle dicotomie: sì o no.
<Ti prego: fai come me. Ti aiuto io…possiamo far scappare anche tua mamma e tua sorella>.
Finalmente Hyeok apre bocca.
<Non puoi chiamarmi dopo tre anni e chiedermi di scappare. Ho delle responsabilità, non sono più un ragazzino immaturo che può vivere la vita che gli pare>.
Gli sembra una risposta sensata, ad una domanda che di sensato aveva ben poco, almeno per lui. La telefonata non aveva preso la piega che pensava, ma almeno era un inizio. Tuttavia Joo lo spiazza nuovamente.
<Perché no, Oppa? Dimmi perché non puoi vivere la vita che vuoi?>.
Il tono di Joo era cambiato, come se, davvero, lei avesse l’esperienza e l’autorità per chiedergli una cosa del genere. Questo intimorisce Hyeok e lo fa sentire ad anni luce da lei. Lei comincia a raccontargli della sua nuova vita. Lui fa altrettanto, raccontandole dei suoi successi come tecnico specializzato e di quanto sia ammirato e stimato per questo. Se avesse continuato così, presto avrebbe potuto persino visitare il mausoleo dei leader. Ognuno perora le proprie ragioni, adducendo motivazioni valide e inconfutabili, senza tuttavia riuscire ad aprire una breccia, senza capirsi nel profondo. Erano oggetti cosmici provenienti da due universi alternativi. Diverse erano le leggi della fisica a cui obbedivano i loro movimenti e i loro pensieri, e diverse erano le prospettive con cui giudicavano l’una i discorsi dell’altro. La telefonata si chiude con un nulla di fatto.
continua…