Dimmi come mangi e ti dirò da dove vieni. Forse l’antico detto non era proprio così, ma è pur sempre valido, specie qui in Lunigiana, perché, se avrete l’occasione di esplorare l’universo culinario di questa terra, vi renderete conto che, spostandovi anche di pochi chilometri potrete trovare piatti la cui ricetta è gelosamente custodita e tramandata dalle varie comunità. Una volta, girando per Pontremoli, sono entrato in alcune rinomate pasticcerie e ho assaggiato, per non dire divorato, un pasticcino tipico del luogo chiamato Amor. Si tratta di una crema, che assomiglia molto alla chantilly, ma molto più cremosa e gustosa, inserita tra due cialde di wafer o due biscottini di pasta frolla e guarnita con della granella di nocciola. Mi è stato detto che la ricetta è strettamente segreta, un po’ come quella della Coca Cola, anche se non viene custodita in un caveaux di qualche banca, e che viene tramandata da quando, i primi pasticceri che lo inventarono, emigrarono fin qui dalla lontana Svizzera. Se vi spostate più giù verso Villafranca in Lunigiana, Bagnone o Aulla troverete gli stessi dolci, ma ogni pasticcere vi dirà che la sua ricetta è quella buona e che le altre sono delle brutte imitazioni. Io, un consiglio mi sento di darvelo: assaggiateli tutti e sono sicuro che nessuno scontenterà le vostre aspettative. Di chi sia poi la ricetta esatta, possiamo anche far finta che non ce ne importi molto.
Siamo partiti da Pontremoli e da qui continuiamo, ricordando i testaroli che, altro non sono che delle specie di cialde morbide, ampie all’incirca una cinquantina di centimetri, ricavate da un impasto di acqua e farina, che vengono fatte cuocere in testi, di qui il nome testarolo. I testi sono contenitori particolari fatti di ghisa o terracotta, formati da una base chiamata “sottano”, dentro la quale viene versata la pastella ed una parte superiore, con funzione di coperchio, detta “soprano”. Il testo, che, in origine, poteva contenere anche altri tipi di cibi, veniva poi posto sulla brace per la cottura. Si tratta di un tipo di cucina povera, dimostrato proprio dai pochissimi ingredienti usati e dalla semplicità del metodo di cottura. I testaroli venivano usati al posto dell’odierna pasta, dopo essere stati tagliati a quadrotti e fatti sbollentare in acqua bollente e salata per poi essere conditi solitamente col pesto o con del sugo a base di funghi.
Il testo è un elemento presente un po’ in tutta la Lunigiana, infatti, in alcuni di questi, ma di dimensioni molto più piccole, vengono cotti i panigacci, che sono sempre fatti con una pastella di acqua, farina e sale, ma un po’ più liquida dei testaroli. I testi sono di dimensioni ridotte e sono esclusivamente di terracotta; vengono fatti preriscaldare solitamente all’interno di un forno o di un camino bello caldo. Poi al loro interno viene versata la pastella e quindi vengono impilati uno sopra l‘altro in modo che il secondo faccia da coperchio al primo e avanti così. Vengono cotti fino a che non raggiungono una solidità maggiore rispetto ai testaroli e possono essere mangiati secchi accompagnati da salumi o cotti, solitamente conditi con olio e parmigiano. Tolto che possiamo trovarli ovunque, sono tipici della zona di Podenzana.
Di Zeri è famoso, in tutta Italia, l’agnello, proveniente da allevamenti di una specie particolare di ovino, frutto di specifici incroci operati dal XVIII secolo in poi e che, grazie all’isolamento geografico delle valli zerasche, ha prodotto una razza semi autoctona, tutelata ed inadatta allo sfruttamento su base industriale. Può essere mangiato fritto, in umido o al forno ma, sulla base di quanto detto prima, particolare gusto ha quello cotto nei testi, magari accompagnato dalla altrettanto famosa patata di Zeri. Scendendo un po’ più a valle, a Bagnone, per l’esattezza, è rinomata la “barbotta” ovvero una torta, che di dolce non ha proprio nulla, perché viene fatta con la farina di mais e con le cipolle di Treschietto, piccola frazione del comune. La cipolla di Treschiett è molto pregiata e, per sapore, non ha nulla da invidiare a quella più famosa di Tropea. Restando in tema di testi, un po’ dappertutto si trovano le cosiddette focaccine, cioè delle piccole focacce con i soliti ingredienti poveri già citati, ovvero acqua, farina e sale cotti però in testi di ferro, che nella versione casalinga sono fatti a portafoglio e con cinque piccole postazioni. Le focaccine si tagliano in due e vengono farcite con salumi, formaggi e per i più golosi con la Nutella. Molto simili, ma di dimensioni più grandi e molto più sottili sono i “cian”, delle specie di tortillas o piadine che vengono cotte in testi di ferro molto larghi e piatti. Di tutt’altra natura sono le “pattone” (da non confondersi con i pattoni, che in dialetto sono le pacche o gli schiaffi), tipiche della zona di Fivizzano, delle specie di focaccine morbide fatte di farina di castagne e cotte nelle foglie di castagno, particolarmente prelibate quando vengono consumate con la ricotta fresca all’interno. La pattona ci introduce un altro alimento tipico della zona, ovvero la castagna. I contadini dell’epoca la usavano praticamente per tutto, traendone soprattutto una farina che andava a sostituire quella più pregiata di grano.
Proprio mescolata con quest’ultima, con l’aggiunta di olio d’olivo ed una modesta quantità di patate per renderlo più morbido, viene fatto il pane di Casola, che per il caratteristico colore scuro prende il nome di “marocca”. Con la farina di castagne è possibile fare anche la polenta, che, nella ricetta tradizionale, è chiamata incatenata o “meschia” ed è preparata con fagioli, cavolo nero, patate e lardo.
L’elenco dei piatti tipici che possono essere caratteristici di un paese piuttosto che di un altro è davvero lungo e nominarli tutti mi metterebbe a rischio, perché dimenticarmene uno, solleverebbe critiche inimmaginabili nei miei confronti. La Toscana del resto è famosa per il campanilismo tra le sue città e in Lunigiana è più forte più che mai. Già sarà un problema affrontare le eventuali critiche di chi, nei prossimi giorni mi fermerà dicendo che nella polenta incatenata non ci va un certo ingrediente, mentre ce ne vorrebbero degli altri, ma è un rischio che accetto di correre. Quello che è certo è che questa terra è riuscita a produrre dei piatti incredibilmente buoni con ingredienti che noi, oggi, chiamiamo poveri, ma che in realtà costituivano il materiale essenziale, di tutti i giorni, sulle tavole contadine: le castagne, l’olio, la farina e le verdure che ognuno poteva coltivare nel proprio campo. Per scoprire tutti i piatti, anche quelli che non ho citato, almeno mantengo un po’ il mistero, non rimane che venire a scoprirli nei ristoranti, nelle sagre e, perché no, nelle case, copiando un po’ il motto di un giornalista televisivo di questi tempi che invitava a visitare le varie zone d’Italia non come turisti, ma come ospiti.