L’uomo anela al massimo benessere psico-fisico possibile. I più virtuosi lo perseguono attraverso una costante e rigida profilassi, fatta di pratiche sportive di varia natura ed intensità, coniugata a regimi alimentari sani ed equilibrati, che riescono misteriosamente ad affiancare alla routine lavorativa/familiare quotidiana. Tutti gli altri, invece, si affidano alla genetica e a qualche stratagemma, perlopiù illusorio, che coinvolge quelle attività a cui dedichiamo, forzatamente, molto tempo, senza che esse richiedano, tuttavia, un particolare sforzo attuativo da parte nostra, come il mangiare, il dormire e lo stare seduti. Periodicamente salta fuori qualcosa che ci aiuta a fare meglio ognuna di queste attività. C’è sempre una “terapia”, un materasso, un cuscino, un dispositivo di qualche tipo, che promette migliorie in grado di cambiarci la vita: dimagrire mangiando, ringiovanire dormendo, scolpire gli addominali oziando, diventare Rocco Siffredi deglutendo una pillola, ottenere il portamento di Roberto Bolle stando seduti, e così via. Ma quello che per noi occidentali è un problema semplicemente ergonomico, in Giappone è una questione molto più profonda, che affonda le sue radici in una tradizione centenaria.
Il Giappone sta scoprendo la sedia. Nel 2022, a Tokyo, si sono tenute ben quattro esposizioni dedicate a questo oggetto e alla metamorfosi stilistica che ha trasformato, in pochi decenni, questo semplice dispositivo di riposo, in un complemento d’arredo, spesso solo decorativo, snaturato della sua originaria funzione, in favore di linee e materiali spesso fin troppo arditi. Fino a pochi decenni fa, la sedia era completamente assente dagli spazi domestici giapponesi. La sua progressiva introduzione nelle abitazioni è il risultato della contaminazione culturale, cui il Giappone si è inevitabilmente esposto, a causa del suo strabiliante sviluppo economico e della modernizzazione socio-culturale che esso ha forzatamente generato. Fra tutte le impertinenze occidentali, a cui la rigida società giapponese ha dovuto concedere la cittadinanza, la sedia è quella che presenta gli aspetti più conflittuali. Perché sedersi, nel paese del sol levante, è una cosa maledettamente seria.
La seduta giapponese, per definizione, è quella della seiza. Ogni altro tipo di postura che adottiamo quando noi occidentali prendiamo posto sulle nostre sedie, è un indice di disordine, di bassa moralità, di scarso rispetto per ciò che trascende l’essere umano, come il divino o la natura. In linea con la curiosa inclinazione dei giapponesi per l’auto-afflizione, la seiza rappresenta una sorta di tortura tendineo-muscolare, che non ha alcun senso, se non per gli occidentali particolarmente rapiti dalla via giapponese all’elevazione dello spirito, e dediti alle pratiche meditative, di yoga o di combattimento marziale che, secondo la tradizione, la veicolano. La seiza è parte integrante, se non fondante, di questo universo di sofferenza fisica, ma è alla base anche di nobili attività ricreative quali l’ikebana, cioè l’arte della disposizione dei fiori, e il sadō, cioè la sacra cerimonia del tè. Molti studiosi sono convinti che una delle ragioni che spiegano la straordinaria longevità dei giapponesi risieda proprio nella loro centenaria abitudine a sedersi per terra. Ma non è sempre stato così.
La sedia venne introdotta in Giappone nel 500 d.C., ma prima di allora erano presenti dei sedili pieghevoli detti shōgi, e dei seggi in legno usati dai monaci buddhisti, chiamati kyokuroku. La diffusione fu lenta e richiese un paio di secoli, ma poi cambiò tutto. Nei momenti di pausa della battaglia, i guerrieri nobili usavano sedersi su uno sgabello, mentre i soldati contadini, invece, si sedevano per terra o s’inginocchiavano. La seduta lontano dal nudo suolo – freddo, sporco, fangoso e scomodo – era un privilegio, e indicava la superiorità del loro lignaggio. Ben presto, questa duplice esigenza, igienica e sociale, si tradusse in un innalzamento dei pavimenti delle loro case. Le attività come il sonno o il sedersi per mangiare, vennero trasferite lì: il pavimento si trasformò rapidamente nella sedia dei giapponesi, e l’uso di questo oggetto venne rapidamente abbandonato. L’usanza di sedersi per terra ha avuto un ruolo cruciale nella costruzione dello stile giapponese. La progettazione delle case e dei giardini fu conformata all’idea che questi ambienti fossero vissuti da persone che stavano sedute, inginocchiate o distese sui pavimenti. Quindi, una delle tradizioni più emblematiche del Giappone prese forma così, da motivazioni che niente avevano a che fare con la sacralità, di cui è intriso, oggi, questo semplice gesto. Come sia stato possibile che il fatto di sedersi abbia assunto, nei secoli, questa valenza, è un mistero antropologico.
Una seiza corretta e conforme alla tradizione, permette al corpo di compattarsi e di occupare poco spazio, cosa particolarmente utile negli spazi angusti. Nella cerimonia del tè, originariamente, la seiza indicava l’atteggiamento umile e deferente del padrone di casa nei confronti dell’ospite a cui si offriva la bevanda. Nobili e imperatori erano raffigurati seduti sul pavimento, nella posizione della farfalla, chiamata rakuza, a imperitura rappresentazione della loro forza e bellezza. È davvero impossibile penetrare l’essenza della cultura giapponese, se non si considera con la necessaria attenzione l’enorme importanza dell’abitudine di sedersi sul pavimento. Quasi tutti gli aspetti della vita dei giapponesi, persino il modo di salutare gli altri, nascono da questo. I soggetti depositari delle antiche tradizioni, come le scuole della cerimonia de tè, si sentono minacciati dalle ingerenze culturali dell’occidente, e difendono gelosamente quella che da molti, ancora oggi, è considerata come una ricchezza del paese. Ma è una battaglia difficile, perché la modernità incombe minacciosa. Il passaggio dal tatami alla sedia moderna in stile occidentale, che tanta fascinazione sta esercitando sugli abitanti delle grandi città giapponesi, presenta comunque degli aspetti problematici e contraddittori. Primo fra tutti, l’aspetto legato al concetto di comodità. Per noi occidentali stare seduti deve offrire principalmente una certa dose di comfort. Per i giapponesi, invece, stare seduti ha significato, per molti secoli, tutt’altra cosa. La corsa all’uniformità con gli standard occidentali è considerata una cosa sbagliata, e non può che essere dolorosa. Se nel DNA hai scolpita l’abitudine ad una postura seduta – che prevede schiena drittissima e articolazioni ultra elastiche per resistere un’ora o più in posizione di seiza, senza finire al pronto soccorso – il passaggio ad un dispositivo che incoraggia l’assunzione di posture che vanno in direzione diametralmente opposta, presenterà inevitabilmente dei contraccolpi. Questo impianto culturale e fisico, non può essere rimosso da un giorno all’altro. Se è vero che la tradizione legata all’arte del sedersi, sta svanendo nella pratica, è altrettanto vero che il suo effetto continua ad influenzare la cultura giapponese.
La posizione eretta e l’atto di camminare con tale postura, sono due fasi del conflitto fra la nostra specie e la forza di gravità. È una battaglia risalente ai nostri progenitori scimmieschi, ed è così estenuante che, ad un certo punto, fermarsi e sedersi sono l’unico modo per non crollare a terra esausti. Ma i giapponesi sono andati oltre, e hanno caricato l’atto del sedersi di un significato che va al di là della sua dimensione puramente fisiologica: sedersi in modo corretto, e affrontare la sofferenza che ciò comporta, è un atto dell’anima, liberatorio e purificante.
Ciononostante continuo a preferire il divano.
Fonti:The Japan Times, Giappone (tradotto e pubblicato in Italia da Internazionale Spa)